Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
COMUNISMO CINESE

Rallenta la crescita in Cina, il dragone che annaspa

All’inizio dell’anno, mentre i cinesi stanno festeggiando il capodanno lunare, l’Ufficio nazionale di statistica di Pechino ha diffuso i dati sulla crescita economica. Doccia fredda: è il secondo dato peggiore dal 1976. La causa non è solo il Covid, ma anche la stessa politica del Partito. E in futuro peserà la denatalità. 

Economia 18_01_2023

All’inizio dell’anno, mentre i cinesi stanno festeggiando il capodanno lunare, l’Ufficio nazionale di statistica di Pechino ha diffuso i dati sulla crescita economica. Sono una doccia fredda: con un incremento del Pil del 3% nel 2022, la Repubblica Popolare registra il secondo dato peggiore dal 1976. Solo il 2020, primo anno del Covid, era andato peggio, con una crescita di appena il 2,2%.

Al lettore italiano, abituato ormai alla crescita 0, queste cifre possono apparire ancora impressionanti. Ma la Cina è un Paese in via di sviluppo, deve ancora costruire tutta la sua ricchezza, fino al 2010 ha registrato una crescita a due cifre e dopo il 2010 mai inferiore al 6%. Nel 2021, che per i cinesi è stato l’anno di tregua fra un’ondata di Covid e l’altra, la crescita del Pil era dell’8,1%. Ora il dato del 2022 riflette la crisi provocata dalle politiche di “Zero Covid” perseguite per tutto l’anno. Ma anche una serie di crisi strutturali che è bene non sottovalutare, anche in Occidente.

La crisi del 2020 era stata provocata solo in parte dalle politiche di lockdown cinesi, limitate a Wuhan e provincia e unicamente nella prima metà dell’anno. La principale causa era stato il crollo delle esportazioni in un mondo che aveva chiuso le frontiere (e i suoi cittadini) e il panico dovuto alla pandemia. Il 2021, per questo, era stato l’anno della rinascita economica. Ma nel 2022 il regime comunista cinese ha dato un forte giro di vite interno, credendo di eradicare il virus che aveva ricominciato a circolare. Mentre tutto il mondo ricominciava a chiedere di comprare, la Cina chiudeva porti, frontiere, fabbriche e disarticolava le linee logistiche internazionali. È questa una delle principali cause immediate dell’impennata dei prezzi in tutto il mondo e il motivo, pressoché unico, del rallentamento della crescita in Cina.

Le misure prese dalle autorità di Pechino in questo breve lasso di tempo fra la fine del 2022 e l’inizio dell’anno, sono la prova di cosa non abbia funzionato nelle loro politiche economiche: troppe chiusure, controlli troppo arbitrari (e punitivi) sulle aziende più ricche e promettenti e infine troppe guerre economiche con l'Occidente. Ora, non solo è finita repentinamente la politica “zero Covid”, dalla sera alla mattina, aprendo anche le frontiere internazionali. Ma è stata alleggerita anche la politica di stretto controllo delle “Big Tech” cinesi ed è stato rimosso il divieto di importare il carbone australiano.

La stretta sulle grandi compagnie tecnologiche cinesi, negli ultimi due anni, inclusa la “rieducazione” del magnate Jack Ma (fondatore di Alibaba, la Amazon cinese), erano il marchio di fabbrica della politica del presidente Xi Jinping, per ridare un carattere più prettamente comunista al Partito. Sabato scorso la Banca Centrale cinese ha annunciato di aver posto fine a un’investigazione su 14 aziende proprietarie di piattaforme online. Anzi, il governo ha annunciato che in futuro sosterrà maggiormente le aziende ad alta tecnologia e renderà “più prevedibili” i prossimi controlli.

Anche la fine dell’embargo sul carbone australiano è un segnale che la politica commerciale internazionale sta entrando in una fase più rilassata. Dopo due anni di duro confronto con l’Occidente, soprattutto con l’Australia (che voleva indagare maggiormente sulle origini del Covid in Cina), ora a Pechino conviene aprire di nuovo le frontiere per cercare di far ripartire l’economia.

Dopo questi anni terribili, quanti vorranno ancora trattare la Cina come “fabbrica del mondo” e delocalizzarvi le loro attività? E quanti riprenderanno a comprare dalla Cina? Con la guerra in Ucraina e l’inflazione, le esportazioni cinesi continuano ad essere in crisi. E dopo tre anni di chiusure arbitrarie, a singhiozzo, dopo aver chiuso quasi interamente porti strategici come Shanghai, la fiducia dei consumatori è crollata, anche nella stessa Cina. L’indice di fiducia dei consumatori, un dato diffuso dall’Ufficio nazionale di statistica cinese, è diminuito di ben 35 punti a dicembre.

Nel lungo periodo, però, la sfida più difficile sarà posta dal calo demografico. Se ora i cittadini con più di 65 anni costituiscono il 13,5% della popolazione, entro il 2035, al ritmo attuale di crescita, saranno il 30%. Quindi: nel prossimo decennio, un terzo della popolazione cinese sarà fuori dal processo produttivo.