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Quirinale in rosa, le contraddizioni non viste

Tiene banco l’appello firmato da donne, tutte di area progressista, che chiedono un presidente della Repubblica in rosa, una variante delle famose “quote”. La cui genesi sta in un’ipotesi di Money, che non valorizza la donna. Privilegiare a priori le donne è una doppia discriminazione, a danno sia degli uomini che delle donne stesse. E non è tutto…

Editoriali 05_01_2022

C’è chi vorrebbe un Quirinale in rosa. Sarebbe ormai tempo che il prossimo presidente della Repubblica fosse una donna. Dacia Maraini, Edith Bruck, Liliana Cavani, Michela Murgia, Luciana Littizzetto, Silvia Avallone, Melania Mazzucco, Lia Levi, Andrée Ruth Shammah, Mirella Serri, Stefania Auci, Sabina Guzzanti, Mariolina Coppola, Serena Dandini, Fiorella Mannoia hanno firmato un appello chiedendo di eleggere al Colle una donna. “Sappiamo - scrivono le appellanti - che ci sono in Italia donne che per titoli, meriti, esperienza ed equilibrio possono benissimo rappresentare l’intera nazione al massimo livello”.

In modo preliminare annotiamo che tra le firmatarie dell’appello, tutte di area progressista, ci sono ben tre donne che fanno il comico. Lavoro onestissimo, si badi bene, ma, ci domandiamo, non può essere un boomerang dal punto di vista comunicativo far lanciare un messaggio serio da un comico? O forse le tre donne-comico, per paradosso, si prendono così sul serio che non si accorgono dell’evidente ossimoro? Ulteriore annotazione preliminare: nel gruppo che ha lanciato l’appello non compare nessun uomo. Si risponderà: ovvio, vista la richiesta, cioè avere un presidente donna. Non ci pare così ovvio. Anche un uomo potrebbe desiderare un presidente donna. Forse che tale desiderio è appannaggio del gentil sesso? Inoltre, far entrare nel gruppo dei proponenti anche degli uomini avrebbe accresciuto la credibilità dell’appello. Ma evidentemente per il gruppetto di cui sopra il maschio è un paria, uno non degno di sottoscrivere alcunché insieme alle donne. La presenza di un uomo avrebbe contaminato la purezza del messaggio.

Ma veniamo alla critica di fondo che si potrebbe articolare a questo messaggio. Le firmatarie esigono una donna al Colle. Si tratta di una variazione del mai tramontato e intramontabile tema delle quote rosa. Se le quote rosa riguardano le percentuali di donne in politica, nei consigli di amministrazione etc. l’appello di cui sopra riguarda la frequenza delle nomine, ma la sostanza non cambia. Le firmatarie scrivono: “è arrivato il tempo di eleggere una donna”.

La psichiatra ed endocrinologa Dina Nerozzi descrive così la genesi delle quote rosa: «Negli anni Cinquanta, lo psicologo-sessuologo della John Hopkins University [John Money] iniziò a sostenere un’ipotesi interessante: uomini e donne non si nasce ma lo si diventa sotto l’influsso ambientale. La dicotomia maschi/femmine non sarebbe, a suo giudizio, un dato di fatto self-evident, ma una costruzione culturale. In realtà, Money divise l’operazione in due parti: il primo passo da affrontare era il “ruolo di genere”. I ruoli affidati ai maschi e alle femmine erano una sorta di imposizione culturale da cui le donne dovevano essere affrancate. La donna doveva uscire di casa e imporsi nella società come gli uomini e soprattutto doveva acquisire i ruoli dirigenziali che bisognava suddividere in base al meccanismo delle quote tra maschi e femmine (almeno inizialmente). In questo modo, si strinse l’alleanza tra Money […] e le femministe che videro attraverso le sue teorie il modo di eliminare le diseguaglianze tra ruoli maschili e femminili e il modo di infrangere il famoso “tetto di cristallo” che impediva alle donne di accedere agli uffici più alti, e che sarebbe stato loro garantito, ope legis, in base al meccanismo delle quote» (Rivoluzione di genere: inizio, decorso e prospettive, in Famiglia Domani - Nevd, La teoria del gender: per l’uomo o contro l’uomo, Solfanelli, Chieti 2014, pp. 95-96).

Sotto questa angolatura le quote rosa rappresentano una contraddizione in termini; infatti non valorizzano la donna in quanto donna, ma tentano di farla assomigliare all’uomo, la mascolinizzano. Il peccato originale delle quote rosa sta nel fatto che si sostituisce il merito con il sesso. Chi vorremmo al Quirinale? Il più meritorio, il più capace a ricoprire questo ruolo, uomo o donna che sia. Parità di accesso alla carica, ma poi vinca il migliore. Le quote rosa, invece, assicurano la presenza femminile negli organi di governo, ma non assicurano la competenza. E dunque potrebbe benissimo accadere che alcune donne vengano elette e tolgano il posto a uomini più capaci di loro, ma che hanno il solo torto di essere maschi.

Privilegiare a priori le donne sugli uomini porta poi ad una doppia discriminazione. La prima riguarda l’uomo che si vede relegato a seconda scelta solo per la colpa di essere uomo. Per paradosso è il motivo di base delle rivendicazioni femministe: non essere considerate dalla società solo perché donne. Le quote rosa, dunque, renderebbero “più uguali” le donne rispetto agli uomini. Ma la discriminazione poi riguarda le donne stesse che, se devono essere avvantaggiate, vuole dire che difettano in qualcosa in quanto donne, affermazione palesemente falsa. Riservare un posto ad una donna al Quirinale non può che essere motivato dal fatto che occorre privilegiare le donne per compensare un loro handicap, così come occorre riservare alcuni parcheggi alle persone disabili al fine di compensare, seppur in minima parte, la loro disabilità. L’equazione naturalmente è assolutamente da rigettare.

Le firmatarie dell’appello, però, obietterebbero che loro non vogliono una donna al Quirinale perché donna, loro vogliono una donna perché ce ne sono moltissime capaci, ma per un atteggiamento discriminatorio nei loro confronti, per una riserva mentale per cui al Colle ci deve essere un presidente e non una presidentessa, ecco che alcune valide candidate mai potranno ricoprire la più alta carica dello Stato. Insomma, non ci sarebbero parità di condizioni all’accesso a tale carica. Infatti così scrivono: “ci rifiutiamo di pensare che queste donne non abbiano il carisma, le competenze, le capacità e l’autorevolezza per esprimere la più alta forma di rappresentanza e di riconoscimento. Questo è il punto. Non ci sono ragioni accettabili per rimandare ancora questa scelta”. Dunque, il punto sarebbe che donne di valore ci sarebbero, ma dato che sono per l’appunto donne non verranno mai scelte. Da qui l’invito a superare questo atteggiamento discriminatorio.

Tralasciamo il fatto che tale invito trova la sua propulsione migliore nel clima politicamente corretto in cui costantemente affoghiamo e secondo il quale la donna deve essere sempre favorita a priori; tralasciamo dunque questo dato e facciamoci una domanda: se le cose stanno davvero così - ci sono donne adatte a ricoprire il ruolo di presidente della Repubblica ma non verranno mai elette - di chi è la colpa? Il sottinteso è intuibile: degli uomini. Tra Palazzo Madama e Montecitorio le donne elette in Parlamento sono il 35,7%. Troppo poche, così si direbbe, per spostare l’ago della bilancia nei giochi di potere che portano all’elezione del Capo dello Stato. Fossero il 50% o ancor meglio il 60% avremmo di certo una presidentessa al Quirinale.

Non ne siamo così certi. Il dubbio è legittimo se andiamo a vedere cosa è successo con la legge elettorale n. 165/2017 - nota come Rosatellum - che prevede che nei collegi plurinominali l’elenco dei candidati di ciascuna lista deve seguire l’alternanza di sesso tra maschi e femmine e che inoltre nel complesso dei collegi uninominali e nelle posizioni di capolista nei collegi plurinominali i candidati di ciascun sesso devono essere compresi tra il 40 e il 60%. Nonostante questa legge che imponeva le quote rosa, il numero di donne elette in Parlamento nelle elezioni del marzo del 2018 è stato addirittura inferiore, seppur di poco, rispetto a quello delle precedenti elezioni in cui non vigeva ancora questa normativa favorevole alle candidature delle donne. Forse, allora, le donne non votano le donne. Le ricercatrici dell’Università Bicocca di Milano Alessandra Casarico e Paola Profeta scrivono: «la presenza di candidate donne esercita sempre una maggiore attrattiva verso la competizione politica da parte delle elettrici, anche se non necessariamente le donne votano per una donna. Il caso di Hillary Clinton nelle primarie americane è emblematico: la sua candidatura ha attirato l’attenzione dell’elettorato femminile, anche se poi molte, soprattutto le più giovani, hanno votato finora per Barack Obama» (Per chi votano le donne, in Il Sole 24 Ore, 6/4/2008).

La giornalista Assunta Sarlo e la sociologa dell’Università Bicocca Francesca Zajczyk mettono poi in evidenza un altro dato che, potremmo così dire, sta addirittura a monte: l’indifferenza delle donne per la politica, anche quando questa si tinge di rosa. «Sul finire degli anni Settanta anche l’Italia - scrivono la Sarlo e la Zajczyk - cominciò ad allinearsi ad altre nazioni occidentali e a vedere calare la partecipazione, secondo una dinamica di genere che vide le donne allontanarsi prima dai seggi elettorali. Dal 1979 in poi e almeno fino al 2001 la forbice di genere si è andata divaricando, sull’onda di una più precoce “stanchezza del voto” da parte delle donne, legata alla crisi delle organizzazioni di massa e all’affievolirsi di quel sentimento religioso che tanto aveva pesato negli orientamenti politici femminili» (Donne e uomini uniti nel non voto, in InGenere, 8/7/2013). Le due autrici dell’articolo poi aggiungono che tale divaricazione nell’astensionismo si è stabilizzata dal 2001 in avanti. Insomma, anche se il numero di candidati donne aumentava negli anni, diminuiva parallelamente l’interesse delle donne addirittura per il voto stesso.

Non è allora che le meno femministe siano proprio le donne stesse?