Quid est Veritas? La Verità è una Persona
L'intervento di mons. Giovanni d'Ercole alla Giornata della Bussola 2023 è incentrato sulla domanda di Pilato, che riecheggia nell'inquietudine dell'uomo contemporaneo. Alla molteplicità di opinioni Gesù risponde col silenzio, invitando ad aprire gli occhi e il cuore alla Verità con la maiuscola.
1.La testimonianza di Gesù in dialogo con Pilato.
Scrive san Paolo a Timoteo: “Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose e di Gesù Cristo che ha dato la sua testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1Tm 6, 11-26). La testimonianza resa da Gesù davanti a Pilato concerne la domanda che Pilato gli pose: “Sei tu il re dei Giudei?”. Tutti i vangeli riferiscono quest’incontro: Mt27,11-26 “Sei tu il re dei Giudei?” Gesù rispose: Tu lo dici”. Mc15,1-15 “Tu sei il re dei Giudei? Ed egli rispose: Tu lo dici” Lc23,1-7, 13-25: ”Sei tu il re dei Giudei?”. Ed egli rispose. “Tu lo dici”. Tuttavia solamente in Gv19,1-16 il dialogo prosegue sulla verità. Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38 ss). Poiché questa parte del dialogo si trova solo nel vangelo di Giovanni, qualche studioso azzarda ad affermare che si tratterebbe di un dato storico inverosimile, presentando la massima autorità romana Ponzio Pilato, noto per la sua crudeltà nei confronti degli Ebrei, che fa da spola fuori e dentro il pretorio almeno sei volte, fungendo da portavoce tra Gesù e i capi giudei. Fin dall’inizio invece per la tradizione cristiana, si tratta d’uno degli eventi della vita di Gesù più importanti ed è storicamente ben fondato. Forse proprio per questo, in oltre duemila anni di storia molti hanno dedicato la loro attenzione alla domanda che Pilato pose a Gesù di Nazareth. Quid est veritas?
Accanto agli storici del cristianesimo, hanno mostrato interesse un gran numero di vangeli apocrifi di autori di questi ultimi secoli. È un genere sorprendentemente diffuso, nel quale la figura di Pilato gode di un grande successo: tra questi autori basta citare Michail Bulgakov, Anatole France, Roger Caillois, Friedrich Dürrenmatt e Karel Čapek; in Italia scrittori cattolici, come Elena Bonora o Luigi Santucci, e laici come Giorgio Linguaglossa e Lino Cascioli.
Ma perché Pilato affascina tanto? Di lui non si sa quasi nulla e i vangeli ne restituiscono un ritratto ambivalente che ogni epoca cerca di reinterpretare nella maniera ad essa più congeniale. Pilato sembra avere caratteristiche affini alla sensibilità dell’essere umano di ogni tempo, e soprattutto all’uomo contemporaneo, e per questo diventa l’icona a cui molti guardano ponendosi domande e cercando risposte.
2. La crisi dell’Impero Romano
Può aiutarci a meglio capire un rapido sguardo alla diffusa crisi e al disorientamento che segnava ai tempi di Pilato la vita l’Impero romano, dove si cominciava a sentire fortemente l’abbandono e la perdita dei cinque valori principali della “romanità” condensati nell’espressione “mos maiorum” e che ogni buon romano doveva possedere: fides, pietas, majestas, virtus e gravitas.
1. La fides era la fede, il poter confidare sulla parola data senza contratti né testimoni. Nel diritto romano questo valore rivestiva un ruolo cruciale e nel caso in cui fosse stato tradito la persona lesa poteva intentare una causa per mancata lealtà. I Romani ritenevano che la fides abitasse nella mano destra – la mano dei giuramenti – ed era rappresentata sulle monete con un paio di mani coperte. Da qui nacque il giuramento nei tribunali imponendo la mano destra su un libro, civile o sacro. La dea della buona fede era descritta come una vecchia donna, ma rappresentata sempre come giovane.
2. La pietas era la devozione, la protezione e il rispetto dovuto agli dèi, alla patria, ai genitori, ai parenti e agli schiavi. Cicerone riteneva che la pietas fosse la giustizia verso gli dèi e, come tale, richiedeva un’accurata osservazione dei rituali per il sacrificio e una corretta esecuzione ma anche la devozione e rettitudine interiore della persona. Livio narra che la pietas era rappresentata spesso in forma umana, come una donna accompagnata da una cicogna.
3. La majestas indicava la dignità dello stato come rappresentante del popolo, valore poi trasferito all’imperatore stesso. Da ciò deriva il reato di “lesa majestatis”, ovvero un crimine verso lo stato per coloro che deturpavano opere pubbliche, o nei confronti dell’imperatore o del senato romano. Questo valore aveva anche il significato della grandezza di un popolo, cioè l’essere fieri di appartenere al popolo romano, come il migliore perché superiore agli altri per civiltà, cultura e costumi.
4. La virtus deriva dal termine latino vir (uomo) e comprendeva ciò che costituiva l’ideale del vero uomo/cittadino romano. Il poeta Lucilio riteneva che la virtus per un uomo consistesse nel sapere ciò che è bene e male e designava anche il valore in battaglia dell’eroe e del guerriero. La virtus era tale solo se non messa al servizio dei propri interessi, come la ricerca del potere. Questo valore era ereditario e i discendenti di uomini virtuosi avevano l’onere di seguire le orme paterne e di dimostrare di esserne degni. A partire dal I secolo a.c. la virtus non è più una virtù che si trasmette di padre in figlio ma può essere ottenuta dal civis novum attraverso le sue gesta e quelle degli antenati.
5. La gravitas corrispondeva al rispetto della tradizione, alla serietà, alla dignità e all’autocontrollo. Questo contegno doveva essere dimostrato dal buon romano di fronte a qualsiasi avversità.
*Perché crollò l'Impero romano?
Se si considerano i conflitti di classe, le insurrezioni schiavistiche e le ribellioni delle colonie di quel periodo, dovremmo dire che l'impero è crollato quando meno c'era da aspettarselo. Dal punto di vista della lotta socio-politica, la resistenza delle classi oppresse (se si escludono gli ebrei e i cristiani) era molto più forte tra il II sec. a.C. e il I sec. d.C. che non nel III e IV sec. d.C.
Se dovessimo pensare solo ai motivi endogeni dovremmo dire che l'impero è caduto non quando era più debole, ma quando sembrava più forte (almeno in apparenza). Sotto l'impero era però aumentata a dismisura la corruzione, la decadenza dei costumi, l'immoralità degli imperatori e l’abbandono dei valori della “romanità”, pur restando fortissimo il potere politico, amministrativo e militare. Quindi non è crollato solo perché i costumi erano corrotti anche se ne è una concausa principale. Peraltro, non tutto l'impero crollò, ma solo la parte occidentale, più sviluppata e più corrotta e immorale. La parte orientale dell’impero, ribattezzata nel nome di Cristo, sopravvisse per altri mille anni. Il che può forse indurci a credere che non tutto l'impero era uguale, cioè che la debolezza (più morale che politico-militare) della parte occidentale era maggiore di quella della parte orientale. Uguale dappertutto era però l'odioso fiscalismo, la coscrizione militare, le leggi inique. Stranamente le regioni orientali avrebbero avuto quindi motivi maggiori per distruggere le fondamenta dell'impero, poiché erano senz'altro maggiormente vessate da Roma, eppure non crollò e il motivo per cui questo non avvenne, ma addirittura la parte orientale sia sopravvissuta per altri mille anni, non è mai stato sufficientemente spiegato dagli storici.
3. La decadenza dell’Impero Romano e quella dell’Occidente.
Limitandoci a considerare la decadenza del “polmone occidentale” dell’Impero romano, che oggi corrisponde al nostro Occidente (Giovanni Paolo II auspicava e insistette inascoltato che l’Occidente e l’Oriente tornassero a respirare a pieni polmoni insieme) possiamo facilmente mettere in parallelo la Roma di quell’epoca con l’Occidente degli ultimi secoli dove la perdita (o meglio il rigetto dei valori della romanità e delle radici culturali e spirituali dell’Europa) ha creato un vuoto riempito dalla conquista dei diritti cosiddetti civili dando vita a una cultura sempre più laica che si propone foriera dello sviluppo dell’essere umano, eppure sempre più capace di far emergere il suo volto violento e prevaricatore.
Un elemento di contatto tra allora e la nostra epoca è la secolarizzazione che nell’era romana attaccava la molteplicità degli dèi dando vita a un permissivismo tollerante e indifferente, il quale, pur ravvivato da inquietudini religiose, ingenerava incredulità, lassismo e confusione. In questi ultimi secoli si può trovare un parallelo nel progressivo affievolirsi della vita dei cristiani con l’affermarsi di un permissivismo e creatività incontrollati nella liturgia e nel culto, un percepibile smarrimento della chiarezza dottrinale e il conseguente scadimento dell’etica e della morale. Tutto ciò a fronte del crescere di una visione dell’umanesimo concepito come affermazione dell’autonomia dell’uomo che si fa dio di sé stesso non avendo bisogno di un Dio creatore. Ma a dominare adesso, come allora, appare l’inquietudine di cui Pilato è un’icona: il suo atteggiamento nei confronti di Gesù oscilla tra ammirazione e scetticismo, mentre nel suo agire si intrecciano ambiguamente bene e male, dubbio e fede. Come allora, anche l’inquietudine dell’uomo moderno/contemporaneo cerca una risposta per l’intrigante domanda: “Che cosa è la verità?”.
4. Di quale verità parliamo?
Che concetto di verità aveva in mente Pilato quando pose la domanda a Gesù? Per Pilato Roma era l'unica garanzia di ragione per il mondo, mentre riteneva la Giudea terra abitata dalla superstizione a causa delle novità religiose legate alla rivelazione biblica e alla predicazione di Gesù. Andava crescendo il concetto di laicità che riteneva le religioni mere illusioni, per cui ciascuno era libero di cercare conforto in esse, facendone tuttavia un fatto privato, mentre a livello pubblico la libertà di pensiero restava il valore primario da difendere. L’interesse per la religione non era pertanto perché fosse portatrice di verità, ma perché era strumento di ascesi interiore o di controllo sociale: si ha così uno slittamento dal criterio di verità a quello di validità. Pilato è l’intellettuale dubbioso, che si aggrappa alla ragione perché inquieto nei confronti del divino; cerca di comprendere ma non può; vuole allontanare il pensiero di Gesù ma non ci riesce; intravvede qualcosa di enorme e assurdo e ha paura; insomma intuisce senza capire. Tormentato, diviso tra razionalità e inquietudine esistenziale, è spinto dalla curiosità verso ciò che Pascal indica come l’ultimo passo della ragione: riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano.
Come per Pilato, nella cultura dominante oggi la verità non si colloca nell’ambito della certezza bensì in quello del dubbio e della ricerca. Non si tratta cioè di un possesso pacifico, ma di un processo in continuo divenire. Ciò implica di fatto un’interminabile indecisione, in cui si riflette la difficoltà di affidarsi a una fede, oppure si sceglie di vivere il dubbio scientifico esprimendolo in un contraddittorio interno alla propria coscienza con il risultato finale di considerare che tutto è relativo e incerto. Per l’uomo contemporaneo l’incertezza rende la conoscenza della verità un’avventura personale che lo trasforma. Bisogna decidere di non accettare passivamente le spiegazioni che vengono fornite sulle cause degli eventi, ed essere convinti che, prendendo in mano la propria vita, non si deve più aderire alla verità ma costruirla. E poiché la ricerca della verità avviene nel profondo dell’anima, il percorso dell’individuo non può mai pienamente prevedersi, né è valutabile dall’esterno: da qui, nonostante tutto, resta aperta una finestra sulla speranza poiché senza sperare l’uomo impazzisce e muore.
Ovvia la differenza tra la concezione della verità in Pilato e quella di Gesù: Per Gesù la verità è certezza perché è verità assoluta, immutabile, eterna mentre per Pilato l’unica verità di cui è certo è che non esiste la “vera verità”. Guardiamo a noi oggi: la verità nell’odierna cultura è relativa agli uomini, alle situazioni e alla storia, mentre il cristiano allora come oggi professa una sola verità, certa e reale. Oggi si assiste a un’arbitraria semplificazione che nasce dall’incapacità di sopportare la complessità e dal punto di vista pratico implica una prepotente e spesso violenta affermazione del proprio punto di vista, e chi fabbrica una verità nega tutte le altre verità. Ci si comporta come un’azienda che produce materassi e il padrone/costruttore proibisce a tutti di utilizzare e dormire su materassi realizzati da altri prima e dopo di lui. È l’imperio del pensiero unico, sempre più violento e intollerante perché in ultima analisi condizionato dalla paura!
Gesù non risponde alla domanda di Pilato: perché? Qualcuno pensa perché capisce che il rappresentante dell’imperatore ritiene che non ci può essere risposta, non crede nella verità, e in ultima analisi nemmeno vorrebbe sapere cosa sia. Nella sua mente – Pilato non è certamente uno sprovveduto - oscilla il dubbio: sono davanti a qualcuno assolutamente straordinario e interessante da conoscere, oppure quest’uomo che si proclama re è solo un ebreo esaltato, pazzo per giunta, che parla di verità a qualche ora dal supplizio della croce?
Per Pilato, come per tanta cultura moderna/ contemporanea, ciò che vale è la concretezza del reale, contano i fatti nudi e crudi dell’esistenza terrena: si è nati per morire, si invecchia, c’è chi sta bene e chi soffre: solo questa vita mi appartiene: carpe diem! Non vale la pena perdere tempo a discutere sulla natura degli dèi (scrivevano alcuni autori latini e oggi riflettono filosofi contemporanei), ma è sempre bene agire come se qualche dio esiste: non si sa mai! In definitiva la verità in senso assoluto è una pura astrazione, un castello in aria, una mera parola e gli uomini non hanno bisogno di parole, ma di cose concrete da toccare e consumare, una casa, una macchina, godersi questa vista in qualsiasi modo possibile e soprattutto, possedere denaro, avere potere e molti beni materiali per essere felici. Del resto, se fosse possibile raggiungere la verità, probabilmente - forse si chiedeva allora Pilato - non sarebbe comunicabile e se pure fosse comunicabile non sarebbe accettata.
Appare evidente una duplice contrapposizione tra la visione di Pilato e quella di Cristo: per Gesù la verità è certezza, luce che rischiara le tenebre del dubbio e mette in fuga la paura, verità unica metafisica e spirituale atta a cambiare la vita, mentre per Pilato la verità è molteplice e soprattutto pragmatica. Per Gesù la certezza della verità riguarda i fondamenti dell’esistenza; a Pilato basta la verità relativa/incerta, concernente eventi particolari ed è propedeutica all’azione, pragmatica: è vero ciò che mi è utile o mi piace che si faccia. Pilato cerca di evadere dai propri tormenti, ma non riesce a liberarsi dalla preoccupazione di acquisire una conoscenza esatta degli avvenimenti pur rifiutando di considerare la verità una direttiva astratta: «Ho sempre seguito gli ordini, ma non perché fossero la verità. Verità era che ero stanco o assetato».[ K. Čapek, Il libro degli apocrifi, cit., p. 77]. E Bulgakov, nel dialogo tra il Maestro e Margherita scrive: “quando Pilato chiede: «Che cos’è la verità?», Gesù gli risponde: «La verità è che ti fa male la testa».[ M. Bulgakov, Il maestro e Margherita, cit., p. 24)
Sono posizioni antitetiche: Pilato incarna coloro che ritengono un concetto di verità relativo, parziale e frammentario; per lui la verità è analizzare, distinguere, separare mentre sia nella prospettiva dell’Antico che del Nuovo Testamento la verità esige certezza e tende a una visione sintetica. Pilato contrappone verità molteplici a una unica verità: per lui esistono molteplici opinioni, e anche il divino può avere volti diversi. Sottolinea il ruolo del singolo nella ricerca della verità, e pone in secondo piano la comunità e la tradizione. Infine tende a separare la ragione dall’emotività, la pratica dalle teorie astratte, il piano umano dal piano divino. In definitiva Pilato è portavoce di una verità – o meglio di più verità – decisamente con la ‘v’ minuscola, pur essendo talora obbligati a misurarsi con una verità assoluta/realtà ineludibile, non tanto a livello filosofico, quanto sul piano della vita e dell’esperienza. Nell’epoca contemporanea molti sono i ricercatori non cristiani che vedono la verità raggiungibile grazie all’incontro con una persona fisica perché credono che la verità esiste e che ognuno ne può essere partecipe, sempre tuttavia in modo parziale. L’unico modo di arrivare alla verità diventa l’incontro: non tra idee opposte, che non sempre sono conciliabili, ma tra persone. Non si può fare sintesi tra “sì” e “no”, ma tra persone si può, perché c’è più verità nelle persone che nelle parole; possono dirsi cose non vere, ma è possibile sempre rintracciare pur modeste tracce di verità nell’anima /cuore di colui con cui ti poni in ascolto/dialogo.
Per altri moderni ricercatori la verità è raggiungibile se la si identifica nella bellezza; per altri la verità si trova in sé stessi e coincide con la propria realizzazione interiore personale. Siamo sempre nell’ambito di una verità concreta e privata che non da risposta all’incertezza e la apre piuttosto a nuovi sviluppi. In realtà oggi alcuni stanno facendo crollare il muro delle proprie relative certezze domandandosi se l’essere umano abbia veramente bisogno di certezze dal momento che ogni certezza può risultare un inganno. E rispondono che non resta ad ognuno di noi che credere fino in fondo nella “mia” incertezza, perché è frutto della “mia” esperienza personale: questa sarebbe la sola verità possibile.
Altri però obiettano: la verità non può ridursi a un vago concetto astratto, concerne invece l’esperienza di autoconoscenza e di dominio del proprio corpo attraverso la meditazione e cresce in molti, in questi ultimi anni, la sete di quiete e di mistero. Alcuni ne vanno in cerca sinceramente e la trovano nella preghiera e nella liturgia, credono di raggiungerla attraverso l’esperienza spirituale personale, nell’incontro privilegiato con il divino: la verità diventa un’esperienza mistica. Finalmente per i discepoli di Cristo la verità è lui stesso: Gesù di Nazareth, vero Dio e vero uomo e, alla domanda: “Quid est Veritas? La risposta è: “ Vir qui adest”, “l’uomo che sta davanti a te”.
5. Quid est Veritas? Vir qui adest! La verità è Cristo
Gesù non risponde a Pilato: “La verità sono io”, ma tace. Perché non lo fa, perché tace? Difficile sapere perché, ma è sempre possibile e utile cercare. Quando Pilato attende la risposta alla sua domanda “Che cos’è la verità?” ha davanti a sé Gesù e i loro sguardi s’incontrano. Sono attimi, forse minuti di silenzio interminabili che ci permettono d’inoltrarci nella nostra riflessione. Pilato guarda e scruta un volto segnato dal dolore dall’ingiustizia umana, che lo fissa tacendo. Insiste nelle domande e non ha per risposta che il silenzio. Gli nasce un travaglio interiore di curiosità e di paura e probabilmente la domanda diventa: “Chi sei tu, Gesù?”. E se la domanda “Che cos’è la verità?” si trasforma in “Chi è Gesù?”, la verità assume un volto preciso e il processo di conoscenza prende corpo nel rapporto personale tra l’uomo e Dio. La risposta alla domanda “Cos’è la verità? Quid est veritas? diventa “Vir qui adest”, ”l’uomo, che ti sta davanti”. È possibile per ognuno di noi l’incontro della verità, un incontro a tutto tondo: con gli altri, con sé stessi e con Dio. Un incontro che si attua sempre in una comunità tramite il dialogo e un legame affettivo con testimoni che hanno incontrato la Verità, la quale ha sempre il volto liberante della Bellezza e dell’Amore. Scrive san Giovanni nella sua prima Lettera: “Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia piena”. (Jn1,3). Nel suo ultimo discorso nel cenacolo prima della passione, Gesù proclamò agli apostoli: ''Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me''(Gv14,1-12). Gesù Cristo rivela il volto della verità.
Interessante quanto scrive Fëdor Dostoevskij alla signora Fonvizina nel 1854 nel rapporto tra verità e Cristo: «Mi sono formato un simbolo di fede in cui tutto per me è chiaro e sacro. Questo simbolo di fede è molto semplice, eccolo: credere che non v’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo; e non solo non c’è, ma con amore geloso io mi dico che neppure può esservi. Ma v’è di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità» (письмо к Н.Ф. Фонвизиной, №61, февраль 1854 г)
Senza conoscere Cristo, non ci può essere conoscenza della verità. Lo scrive chiaramente Benedetto XVI nel libro Gesù di Nazareth e afferma che la domanda «Che cos’è la verità?» è «una domanda molto seria, nella quale effettivamente è in gioco il destino dell'umanità». Annota poi che risulta evidente l'attualità della questione e della sua formulazione: oggi, infatti, la non-redenzione del mondo è connessa in modo particolare con la non-decifrabilità della creazione e con la conseguente non-riconoscibilità della verità. La tecno/scienza moderna nelle varie espressioni e forme, che pretende di aver decifrato il linguaggio di Dio, secondo l'espressione di Francis S. Collins, e di poter dispiegare le formule matematiche della creazione, ravvisate persino nel codice genetico dell'uomo, ci ha in realtà introdotto soltanto in una sorta di verità funzionale sull'essere umano. «Ma la verità su lui stesso - su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il bene o il male - quella purtroppo non si può leggere in tal modo» (p. 218). «Senza la verità l'uomo non coglie il senso della propria vita, lascia, in fin dei conti, il suo destino nelle mani dei più forti. "Redenzione" nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile» (ivi). E se la verità, secondo la formula lapidaria di Tommaso d'Aquino, è Dio stesso ipsa summa et prima veritas (Summa theologiae, I q. 16 a. 5 c), si comprende perché la verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare mai pienamente. «Verità ed opinione errata, verità e menzogna nel mondo – scriveva Benedetto XVI - sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile» (p. 216). L'uomo si avvicina alla verità nella misura in cui si conforma alla realtà e alla propria ragione, nelle quali in qualche modo si specchia la ragione creatrice di Dio. Ma la verità nella sua pienezza, essendo Dio stesso, «diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile. Egli diventa riconoscibile in Gesù Cristo. In lui Dio è entrato nel mondo, ed ha innalzato il criterio della verità in mezzo alla storia» (p. 218).
Il riconoscimento della verità coincide, dunque, con il riconoscimento di Cristo vivo e presente nella storia, cioè del Cristo Risorto. Ma anche questo riconoscimento non è mai pieno e fin dalle prime apparizioni del Signore ai discepoli è soggetto a quella che Ratzinger chiama la «dialettica del riconoscere e non riconoscere». Dialettica che corrisponde, del resto, alla modalità di apparire di Cristo. «Gesù arriva attraverso le porte chiuse, sta improvvisamente in mezzo a loro. E allo stesso modo si sottrae improvvisamente, come alla fine dell'incontro di Emmaus» (p. 295). Proprio in questa esperienza di indisponibilità della sua presenza c'è la prova di un avvenimento reale, irriducibile ad una invenzione da parte dei discepoli stessi. Resta sempre in noi la domanda: «Gesù, perché non hai con vigore inconfutabile dimostrato che tu sei il Vivente, il Signore della vita e della morte? Perché ti sei mostrato solo a un piccolo gruppo di discepoli della cui testimonianza noi dobbiamo fidarci?» (p. 306). Ma «è proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso». Il Risorto vuole arrivare a tutta l'umanità «soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta» e «bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di "vedere"» (ivi). Bisogna ammettere che, oggi più che mai, il riconoscimento della verità, senza voler negare la via della ragione naturale, è legato alla credibilità della testimonianza dei cristiani (quale grande responsabilità!) e alla libertà con cui ciascun uomo si dispone ad accoglierla. Dio, infatti, non vuole «sopraffare con la potenza esteriore, ma dare libertà, donare e suscitare amore» (ivi). "Vedere" ha sempre a che fare con amare.
6. Resta un’ultima domanda: come avvicinare il Pilato di oggi alla Verità?
Il metodo tradizionale dell’indagine razionale non è più sufficiente, poiché non è per via di domande che a mio avviso l’uomo moderno/ contemporaneo può arrivarci. Il Pilato di oggi è pragmatico, non sembra assetato dal desiderio della verità anche se ne sente l’oppressiva inquietudine. Dopo aver navigato in ampie e profonde acque scientifiche, tecniche e virtuali, la sua povera barca s’è spezzata in un silenzio di pietra, tombale. Paradigmatico al riguardo è quanto racconta Giovanni Pascoli nel suo poemetto: “L’ultimo viaggio”, in cui, nel ventunesimo canto Ulisse, nell’inutile speranza di cercare la verità e apprenderla dalle sirene, finisce per naufragare contro gli “scogli delle sirene”, dove le sirene però non ci sono.
Personalmente non conosco altra via che porti alla Verità se non aprire il cuore/l’anima alle sue profonde ragioni e aspirazioni e capire che il fulcro della conoscenza non è più la dimensione intellettuale (sempre necessaria), ma piuttosto avvertire ridestarsi la gioia affettivo-spirituale del cuore e arrivare alla verità è scoprire il segreto di una vita pienamente felice. Sono sempre possibili due fili conduttori nella vita umana: la ragione e il cuore, ma oggi sembra sempre più conquistare terreno il cuore: canale dell’Amore. In questo contesto la verità sembra percepirsi come narrazione e non solo come insieme di enunciati teorici; non come obiettivo di ricerca bensì soprattutto come dono da implorare e accogliere. E se questo è vero, occorre ribaltare la prospettiva del metodo e del linguaggio da utilizzare: c’è un concetto della verità che le parole risultano inadeguate a trasmettere; oggi si va scoprendo il silenzio come privilegiato strumento di comunicazione: dal profondo del cuore il silenzio fa emergere la verità senza renderla banale perché crea spazi di ascolto/dialogo, scevri da pregiudizi e preconcetti.
Grazie alla contemplazione del silenzio di Gesù davanti a Ponzio Pilato, diventiamo discepoli di una Persona umano/divina: il Cristo. Il suo silenzio provoca e denuda ogni pretesa di controllo; il nostro silenzio si trasforma in adorazione rivoluzionaria e il suo silenzio si prolunga nella silenziosa presenza nell’eucaristia dove il silenzio dell’Ostia è la risposta alle domande più profonde dell’animo umano.
Sì, Gesù parla con il silenzio e Pilato lo capisce. Si verifica così il ribaltamento dei meccanismi della comunicazione: Pilato è l’uomo intelligente e presuntuoso della parola, con una fine e arguta retorica da magistrato romano che va in frantumi nell’impatto con il volto di Gesù “Ecce homo” , volto umano sfigurato dalla violenza e dall’ingiustizia degli uomini: «Io non trovo in lui colpa alcuna…e poi ancora ripete: Io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo colpa alcuna…Ecco l’uomo…Prendetelo e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa… a Gesù dice: Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce? E Gesù a lui: Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto…ancora silenzio…Pilato ai giudei: Metterò in croce il vostro re? E alla loro risposta: Non abbiamo altro re che Cesare».
Pilato consegna ai carnefici un uomo anche se è certo della sua innocenza: si chiude così quello che avrebbe dovuto essere un giudizio di condanna di Gesù, diventato un’autocondanna di Pilato che rientra in casa assediato da dubbi e rimorsi. Pilato resta l’uomo degli interrogativi posti o rimasti in sospeso. Ha cominciato con una raffica di domande, arguta esperienza di retore e magistrato consapevole del proprio potere, e finisce barcollando nei dubbi che gli caricano l’animo d’un buio recalcitrante; diventa triste e indeciso come se il suo cuore fosse preda di sentimenti opposti: malinconia e stizza, rimorso e ricerca di autogiustificazione, desiderio di vincere e paura di apparire uno sconfitto, insomma un uomo solo con la sua coscienza, apparentemente infelice per sempre: prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi»: si lava le mani! Può mai dirsi vera libertà questa?
6.Pilato un santo?
Pur potendo il dubbio avere una connotazione positiva, la ricerca della verità resta sempre insoddisfatta. La verità ha un senso performativo e personale: va vissuta più che trovata. Diceva Lessing: «Se Dio mi avesse offerto nella mano destra la conoscenza di tutta la verità, e in quella sinistra la perenne ricerca della verità, con tutti i pericoli e le delusioni che ciò comporta, io avrei scelto la mano sinistra». E Mario Pomilio annota: «Il Cristo non è venuto a fondare delle certezze. È venuto a proporci un modo d’essere nella fede nel quale è incluso tutto, anche la possibilità del dubbio. Cessare pertanto di interrogarsi su Cristo porterebbe a racchiuderlo in una “formula”, e così "avremmo chiuso con Gesù"». (M. Pomilio, Il quinto evangelio, Milano, Rusconi, 1975, p. 356, p.329). In questa luce, Pilato potrebbe diventare un nostro compagno di viaggio nella ricerca della verità; un invito permanente a cercarla senza accontentarsi di risposte preconfezionate, e ad accettarne l’incertezza non spegnendo la speranza. Questo vale per tutti a prescindere dalle credenze di ognuno perché, come nota Schmitt, «siamo tutti riuniti sotto la domanda, divisi nelle nostre risposte» (E. Schmitt, Il vangelo secondo Pilato, cit., p. 340).
Pilato ha il merito di aver immortalato la domanda sulla verità portandone la sofferenza del dubbio e del rimorso e ripropone questa domanda nel corso dei secoli a chi legge il vangelo. Nel VI secolo la Chiesa ortodossa etiopica ha proclamato santi Pilato e sua moglie Claudia Procula, fissandone la festa il 25 giugno. Anche altrove Pilato viene ricordato con varie leggende. Una tra le tante tradizioni racconta la sua conversione e conclude affermando che morì glorificando Gesù Cristo: Via, Verità e Vita. In realtà nessuno conosce come Pilato abbia chiuso la sua terrena esistenza, possiamo però ritenere che la sua domanda continua a risuonare nel cuore di ogni essere umano di tutti i tempi.
* Vescovo emerito di Ascoli Piceno