Questo Presidente non ci è piaciuto
Con le dimissioni ufficiali firmate ieri finisce la lunga permanenza al Quirinale di Giorgio Napolitano, un presidente che si è distinto soprattutto per la sua militanza contro la vita e la famiglia, che pure sono i pilastri per una pacifica convivenza all'insegna del rispetto e della valorizzazione della persona.
Qual è il motivo per cui diciamo che un presidente della Repubblica (ma il discorso vale per qualsiasi altra carica istituzionale) è stato buono o cattivo? Vale a dire: qual è il criterio che usiamo per giudicare?
È la prima domanda che viene in mente leggendo quel fiume di commenti su Giorgio Napolitano nel giorno delle sue dimissioni ufficiali. C’è un generale clima di osanna, interrotto soltanto dai 5Stelle e da qualche esponente di Forza Italia, che però parlano per evidenti interessi di bottega (politica, ovviamente) che sono stati lesi da Napolitano. Ma in generale sono tutti lì a tessere le lodi – qualcuno anche con evidente eccesso di salivazione -: un omaggio all’equilibrio, un altro alla capacità di supplire al vuoto politico, un altro ancora per lo spirito di sacrificio che gli ha fatto accettare di restare altri due anni al Quirinale.
Se scorriamo i nove anni al Quirinale per forza ci troviamo cose positive e cose negative, la vita di una persona – anche professionale, anche politica – non è tutto bene o tutto male. E però come pesare il buono e il cattivo? Vale più il fatto di aver garantito la stabilità istituzionale in un momento di vuoto politico o il fatto di aver scientemente travalicato i suoi poteri per “dettare la linea”? È chiaro che la risposta non può essere soltanto in base alla sintonia con la mia parte politica o con le mie convinzioni personali. E anche il cosiddetto «senso delle istituzioni» che qualche cattolico gli riconosce con gratitudine, andrebbe almeno riempito di contenuti. Cosa vuol dire «senso delle istituzioni»?
Propongo allora un criterio di fondo che serva da punto di riferimento per ordinare i numerosi atti compiuti al vertice delle istituzioni. Ovvero, l’atteggiamento nei confronti dei fondamenti di una società: vita, famiglia, educazione. Non sono soltanto temi etici, come più volte abbiamo avuto modo di dire, ma sono quei princìpi da cui tutto il resto – economia, stabilità sociale, ordine pubblico e così via – dipende. È vero: il presidente della Repubblica non ha potere di legiferare in materia, ma certamente può usare la sua posizione per influenzare dibattito e scelte. E Napolitano in questo è stato più che attivo, un vero e proprio militante contro la vita e la famiglia. Sempre con quell’atteggiamento pacato e bonario da bravo nonno, che tanto piace ai “moderati”, ma pur sempre militante.
In particolar modo l’eutanasia è stata un suo cavallo di battaglia: cominciò già nel 2006 rispondendo all’appello di Piergiorgio Welby e facendo dunque pesare il suo favore a porre fine alla vita; e i suoi interventi si sono intensificati in questi ultimi anni, l’ultimo pochi mesi fa quando ricevendo il Comitato nazionale di Bioetica ha chiesto che il Parlamento legiferasse su questo tema.
Ma certamente il punto più drammatico della militanza pro-eutanasia di Napolitano si è avuta con il caso di Eluana Englaro nel febbraio 2009, quando un suo intervento diretto fu decisivo per la morte della giovane donna. Il presidente della Repubblica – con una mossa fuori da ogni regola costituzionale – raggiunse al telefono il Consiglio dei ministri nel bel mezzo della riunione in cui si sarebbe dovuto varare un decreto d’urgenza per impedire che diventasse operativa una sentenza che avrebbe permesso di porre fine alla vita di Eluana nella clinica La Quiete di Udine. Napolitano disse con chiarezza che non avrebbe firmato quel decreto perché non vi ravvisava quelle caratteristiche di necessità e urgenza che un decreto legge deve avere. Fu la condanna a morte definitiva di Eluana.
Nulla potrà cancellare la memoria di quel gesto, che non è soltanto una macchia su una carriera brillante, ma il vertice di una intera carriera politica in cui il valore della vita è sempre stato relativo (qualcuno ricorda non dico il pentimento, ma un cenno di autocritica per il sostegno convinto alle repressioni sanguinose del comunismo sovietico?). E una società in cui il valore della vita non è assoluto è una società condannata a vedere trionfare la legge del più forte.
Non a caso in questi anni Napolitano non ha mai fatto mistero di forti simpatie e consonanza con i leader del Partito Radicale, Marco Pannella e Emma Bonino. Anche in questo si è dimostrato l’emblema di un Partito comunista trasformatosi in partito radicale di massa. Significativa da questo punto di vista la lunga lettera che Napolitano scrisse a Pannella nel giugno 2011 affermando la sua gratitudine a Pannella perché grazie a lui divorzio e aborto in Italia sono diventati patrimonio culturale comune. E più recentemente la lode pubblica riservata all’Associazione Luca Coscioni, in cui parla di difesa dei diritti fondamentali della persona a proposito dell’impegno dell’associazione radicale a favore dell’eutanasia.
Quanto poi alla questione omosessuale, basta questo tributo del presidente dell’Arcigay, Flavio Romani, alla fine del settennato, per capire come stanno le cose: «Già nel 1997 da Ministro dell’Interno si adoperò con impegno contro gli assassini di omosessuali. Nel corso del suo settennato, per quanto ha potuto, si è poi espresso più volte contro l’omo-transfobia definendola “intollerabile”, ha incontrato le associazioni lgbt italiane per commemorare la “Giornata internazionale contro l’omo-transfobia” e ha premiato Arcigay Trieste per un progetto contro il bullismo antigay a scuola. Napolitano ancora, in un incontro del 2007 con l’allora premier spagnolo Zapatero, si era persino detto ottimista sulla possibilità di trovare una sintesi sulle unioni civili “anche nel dialogo con la Chiesa”».
Poco importa che tutti questi interventi non abbiano prodotto risultati immediati, almeno dal punto di vista legislativo. Il fatto è che il capo dello Stato ha contribuito enormemente a indirizzare il dibattito sui temi fondanti della società sui binari del laicismo, nel segno della distruzione della famiglia e della “selezione” della vita. Indirizzi che sono fonte di disgregazione della società, altro che invito alla coesione.
Questa volontà di intervenire peraltro, si è anche espressa in tutti i campi della politica, tanto da trasformare l’Italia in una repubblica (semi)presidenziale di fatto. Non si contano gli interventi strettamente politici che pure la Costituzione non consentirebbe. E se è vero che i partiti e i rispettivi leader ci hanno messo del loro nel creare le premesse per l’invasione di campo da parte di Napolitano, è vero che l’interventismo del capo dello Stato va molto oltre. Se c’è chi giustifica la fine del governo Berlusconi e l’avvento del governo Monti come una manovra necessaria per salvare il paese dal baratro – malgrado la lunga preparazione e l’accurata regia facciano sospettare ben altro – non ha alcuna motivazione seria l’intervento dell’aprile 2011 a favore dell’intervento in Libia contro Gheddafi, con relativa dura critica ad Angela Merkel per averne tenuto la Germania fuori. O i continui interventi sulle diverse manovre finanziarie o altre singole riforme che sono comunque materia del Parlamento e del governo. Per non parlare della forza con cui ha perorato la causa della cittadinanza alla nascita per i figli degli immigrati (ius soli).
Aldilà delle opinioni sui singoli argomenti sta di fatto che il successore, per cui le Camere riunite cominceranno a votare dal 29 gennaio, erediterà un Quirinale per cui la funzione notarile che la Costituzione sostanzialmente gli riserva è solo un ricordo. Da qui la necessità di una figura che faccia tornare la massima carica dello Stato, se non nei confini attribuitigli dai padri costituenti, almeno entro i limiti del buon senso.