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IL CASO

Quella "Sentenza decalogo" che accusa la stampa

Oportet ut scandala eveniant, potremmo dire volendo trarre tutto il bene possibile dalla vergognosa campagna stampa diffamatoria che è stata montata contro il recente convegno, svoltosi a Milano sabato scorso 17 gennaio, sul tema “Difendere la famiglia per difendere la comunità”. Speriamo sia così.

E REPUBBLICA APRE LA CACCIA AL PRETE         di Luigi Santambrogio

Politica 20_01_2015
Manifestanti gay davanti al Palazzo della Regione Lombardia

Oportet ut scandala eveniant, potremmo dire volendo trarre tutto il bene possibile dalla vergognosa campagna stampa diffamatoria che è stata montata contro il recente convegno, svoltosi a Milano sabato scorso 17 gennaio, sul tema “Difendere la famiglia per difendere la comunità”. Con questo proverbio in latino, liberamente derivato da un versetto del Vangelo di Matteo, si vuol dire che conviene accadano degli scandali se ciò contribuisce a rendere evidente un male, e quindi a esecrarlo e a condannarlo. 

Auguriamoci allora che sia così, e in questo spirito andiamo ad analizzare tale campagna con l’aiuto della cosiddetta “Sentenza decalogo” della Corte di Cassazione: un documento che l’Ordine dei Giornalisti considera parte integrante del corpus di leggi, di norme e di “carte” deontologiche cui i professionisti dell’informazione si devono riferire nell’esercizio del loro lavoro. La sentenza (Corte cass., I civ., 18 ottobre 1984, n. 5259), si raggiunge oggi senza difficoltà anche su Internet inserendo nel motore di ricerca le parole “Sentenza decalogo”, ossia il nome con cui è comunemente chiamata in ambiente giornalistico.. Si tratta di un atto di alta qualità giuridica, risalente ad un’epoca in cui nessuno ancora pensava – diremo parafrasando Clausewitz – che l’esercizio della magistratura non sia altro che la politica continuata con altri mezzi. Per la sua completezza ed equilibrio divenne appunto ben presto nota come sentenza-decalogo, e tuttora chi fa il giornalista sarebbe tenuto (il condizionale ahimè è oggi inevitabile) a conoscerla ed a tenerne conto. 

Nella sentenza si afferma che «la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti (…) è legittima quando concorrano le seguenti tre condizioni: 

1) utilità sociale dell’informazione; 

2) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest’ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; 

3) forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione: cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone (…)»

La sentenza precisa poi che «La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. La verità non è più tale se è “mezza verità” (o comunque, verità incompleta): quest’ultima, anzi, è più pericolosa della esposizione di singoli fatti falsi (…). La verità incompleta (nel senso qui specificato) deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa». La critica poi non è civile, si legge ancora nella sentenza-decalogo, «non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o comunque calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quandonon è improntata a leale chiarezza. (…) il difetto intenzionale di leale chiarezza è più pericoloso, talvolta, di una notizia falsa o di un commento triviale e non può rimanere privo di sanzione».

«E lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista», scrivevano ancora quegli ottimi giudici nel 1984, «al fine di sottrarsi alle responsabilità che comporterebbero univoche informazioni o critiche, senza peraltro rinunciare a trasmetterle in qualche modo al lettore, ricorre (…) ad uno dei seguenti subdoli espedienti (…): 

a) al sottinteso sapiente: cioè all’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori, per ragioni che possono essere le più varie a seconda dei tempi e dei luoghi ma che comunque sono sempre ben precise, le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, ma, comunque, sempre in senso fortemente più sfavorevole - se non apertamente offensivo - nei confronti della persona che si vuol mettere in cattiva luce (…); 

b) agli accostamenti suggestionanti (conseguiti anche mediante la semplice sequenza in un testo di proposizioni autonome, non legate cioè da alcun esplicito vincolo sintattico) di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol mettere in cattiva luce con altri fatti (…) concernenti altre persone estranee ovvero con giudizi (anch’essi ovviamente sempre negativi) apparentemente espressi in forma generale ed astratta e come tali ineccepibili (…) ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben determinate; 

c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato specie nei titoli o comunque all’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre perché insignificanti ocomunque di scarsissimo valore sintomatico, al solo scopo di indurre i lettori, specie i più superficiali, a lasciarsi suggestionare (…); 

d) alle vere e proprie insinuazioni anche se più o meno velate (…) che ricorrono quando pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente, si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda ugualmente in considerazione a tutto detrimento della reputazione di un determinato soggetto».

Se adesso si va a vedere la copertura, come si dice in gergo tecnico, che il grosso della stampa sta facendo del convegno di cui si diceva, salta subito agli occhi che si tratta di un caso esemplare di quel «difetto intenzionale di leale chiarezza» che la Corte di Cassazione sanzionò nella sentenza-decalogo. Non vi manca nessuna delle distorsioni ivi condannate e sanzionate.  La si potrebbe prendere come caso di studio nei corsi di giornalismo e nei corsi di aggiornamento professionale che dallo scorso anno l’Ordine dei Giornalisti impone a tutti i suoi membri, compresi persino i pensionati cosiddetti attivi. Grazie poi a Internet oggi se lo può analizzare chiunque non soltanto come aggiornamento professionale ma anche per curiosità. Istruzioni: dopo aver “scaricato” la sentenza-decalogo la si confronta con le pagine che in questi giorni la Repubblica, il Corriere della Sera e simili dedicano al convegno di Milano e ai suoi strascichi. Terminato il confronto  si dedica qualche minuto a salutari riflessioni sull’attendibilità in genere di quegli autorevoli quotidiani, e quindi si decide che cosa fare di tali pagine.