Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
FESTA DI CRISTO RE

Quella disconosciuta regalità sociale di Cristo

Lo spostamento della festa di Cristo Re all'ultima domenica del Tempo ordinario (nella Forma straordinaria resta all'ultima domenica di ottobre) vuole sottolineare il suo significato escatologico. Ma così si è oscurata la regalità sociale di Cristo, evidentemente ritenuta anacronistica.  

Ecclesia 24_11_2018
Cristo Pantocratore

Domani, ultima domenica del Tempo Ordinario, secondo il calendario della Forma Ordinaria del Rito Romano, cade la festa di Cristo Re. Per la Forma straordinaria, questa festa è invece collocata nell’ultima domenica di ottobre. Come mai questa disparità di calendario, trattandosi di una festa di recente istituzione? Se si riprende il testo dell’enciclica Quas primas, dell’11 dicembre 1925, che stabilisce la celebrazione di questa festa quotannis e ubique, si può notare che il giorno prescelto è proprio quello «dell’ultima domenica di ottobre, domenica precedente la festa di Tutti i Santi». Pio XI ne spiegava la ragione col fatto che, cadendo questa domenica quasi al termine dell’anno liturgico, avrebbe fatto sì che i misteri della vita di Cristo potessero ricevere un coronamento da questa solennità; parimenti, per il fatto che si tratta della domenica precedente la solennità di Ognissanti, si sarebbe messa in evidenza e celebrata «la gloria di colui che trionfa in tutti i santi e in tutti gli eletti».

L’idea si spostare la festa all’ultima domenica dell’anno liturgico iniziò ad essere dibattuta nel 1950, secondo le memorie del cardinal Antonelli. Nonostante una raccomandazione della Congregazione per la Dottrina della Fede di mantenere la festa nell’ultima domenica di ottobre, il Consilium, all’interno del lavoro di revisione dell’anno liturgico, preferì spostarla, adducendo la motivazione di una migliore sottolineatura del suo significato escatologico.

Una dichiarazione di uno dei grandi artefici della riforma liturgica, don Pierre Jounel, che apparteneva al Coetus 18bis, incaricato della revisione delle orazioni e dei prefazi della Messa, può forse aiutare a leggere un po’ meglio cosa si nascondeva dietro questa enfatizzazione del senso escatologico della festa: «Di fronte al crescente ateismo e secolarizzazione della società, [Pio XI] volle riaffermare la suprema autorità di Cristo sugli esseri umani e sulle loro istituzioni. Alcuni punti dell’Ufficio lasciavano intendere che il compositore ancora sognava una possibile Cristianità…».

Per questo motivo, l’obiettivo dei riformatori voleva essere quello di enfatizzare maggiormente «il carattere cosmico ed escatologico della regalità di Cristo. La festa è ora […] assegnata all’ultima domenica del Tempo Ordinario, al di là del quale vediamo l’inizio dell’Avvento con la sua prospettiva del ritorno del Signore nella gloria». Spostare la festa alla fine dell’anno liturgico era uno dei modi per affievolire la portata sociale, da vivere qui ed ora, della regalità di Cristo. In realtà l’Ufficio, la cui innodia esamineremo tra poco, non faceva altro che “tradurre” liturgicamente quanto Pio XI aveva scritto nell’enciclica. Secondo il Pontefice, la celebrazione della festa avrebbe richiamato «al pensiero di tutti che la Chiesa […] richiede per diritto proprio, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero d’insegnare, di reggere e di condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio».

L’altro grande obiettivo di questa festa, era quello di ammonire le nazioni «che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti» e di esortare affinché «la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principi cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia infine nel formare l’animo dei giovani alla sana dottrina e alla santità dei costumi». In altre parole, Pio XI voleva contrastare quella tendenza laicista oggi imperante che spinge la fede nell’ambito privato e grida all’ingerenza ogni volta che la Chiesa ricorda i doveri dei singoli e delle società nei confronti di Dio. I testi liturgici originari della festa di Cristo Re, e in particolare l’innodia, rimasti ormai solo nella Forma Straordinaria del Rito Romano, sottolineavano appunto che Cristo non è Re solo delle singole anime, ma delle intere nazioni e della società e che il bene della società è appunto quello di riconoscere concretamente questa signoria.

Lo spostamento della festa all’ultima domenica del Tempo Ordinario pare dunque voler indicare che la regalità di Cristo è solo escatologica, ha a che fare con la sua venuta nella gloria e non con questo tempo. La conferma di quanto affermiamo, la troviamo lampante nella riforma degli inni dell’Ufficio, composti da p. Vittorio Genovesi.

Partiamo dall’inno dei Vespri, Te saeculorum Principem. La sesta e la settima strofa sono state interamente omesse “per brevità”, secondo Dom Anselmo Lentini, relatore del Coetus 7, che si occupò appunto della revisione degli inni. Motivazione teologicamente pregnante... Quando andiamo a vedere il testo di queste due strofe, ci si accorge che in realtà la ragione è quella di cancellare ogni riferimento alla dimensione sociale della regalità di Cristo: “Te nationum praesides / Honore tollant publico / Colant magistri, judices, / Leges et artes exprimant” (Che i capi delle nazioni, ti rendano pubblico onore; che i maestri ed i giudici ti onorino, le leggi e le arti ti manifestino); “Submissa regum fulgeant / Tibi dicata insignia: / Mitique sceptro patriam / Domosque subde civium” (Risplendano le insegne regali, a te sottomesse e dedicate: assoggetta la nostra patria e le case dei cittadini al tuo mite scettro/sovranità).

La stessa sorte è toccata all’inno del Mattutino (nel Breviario riformato, il Mattutino è divenuto Ufficio delle letture), Aeterna Imago Altissimi, dal quale è stata cancellata la sesta strofa: “Tibi volentes subdimur / Qui jure cunctis imperas / Haec civium beatitas / Tuis subesse legibus” (A te, che giustamente tutto governi, ci sottomettiamo volentieri; questa è la felicità dei sudditi: di sottomettersi alle tue leggi). Anche in questo caso, la ragione addotta per la soppressione di questa strofa è stata la brevità. Il peggio è capitato all’inno delle Laudes, Vexilla Christus inclyta, che è stato integralmente soppresso e sostituito dall’inno Iesu, Rex admirabilis, una composizione, quest’ultima, molto bella, ma che non ha alcun riferimento alla regalità sociale di Cristo. La soppressione integrale si è resa “necessaria” per il fatto che tutto l’inno, e non solo qualche strofa, celebrava l’importanza che tutte le genti riconoscessero il regno di Cristo, che non si instaura tramite la forza, ma mediante l’attrazione dell’amore crocifisso (Alto levatus stipite / Amore traxit omnia). In questo riconoscimento si trova la pace e l’ordo civicus trova la sua stabilità. “Servat fides connubia / Juventa pubet integra / Pudica florent limina / Domesticis virtutibus” (La fedeltà custodisca i matrimoni / la gioventù maturi nella purezza / le case caste fioriscano di virtù domestiche).

Domanda: non è che l’eliminazione di queste aspirazioni dai cuori dei fedeli e dei sacerdoti, e di queste invocazioni al buon Dio hanno contribuito a portarci nella situazione odierna, in cui la società civile non riconosce più Dio e la libertas Ecclesiae, in cui addirittura pare che la Chiesa stessa firmi accordi in cui accetta di essere soggetta a governi atei? Non è che forse queste modifiche, secondo il noto principio lex orandi, lex credendi, hanno portato alla pacifica ammissione, da parte degli stessi cattolici, in primis vescovi e cardinali, che la fede sia questione individuale, privata, ma che poi, a livello pubblico, Dio non dev’essere nemmeno nominato?

Il bisturi dei liturgisti ha proseguito nella sua azione intenzionale di rimuovere qualsiasi riferimento alla regalità sociale di Cristo, ma qui non è possibile farne un’analisi completa. Ci basti almeno far riflettere che questa operazione avrà forse messo maggiormente in luce la regalità escatologica di Cristo, ma ha certamente occultato quella sociale, che era precisamente l’obiettivo dell’istituzione della festa di Cristo Re, di fronte al laicismo imperante. La liturgia della festa celebrava quanto Pio XI insegnava nella Quas primas: «Non vi è differenza fra gli individui e la società domestica e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quanto lo siano gli uomini singoli. E’ lui solo la fonte della salvezza privata e pubblica».
Non si tratta di trionfalismi, o di voler realizzare una Cristianità medievale che non esiste più (la quale, pur con tutti i suoi limiti e difetti, non era poi così male…), ma di riconoscere che la signoria di Cristo sulla società gli spetta di diritto e che essa è la nostra salvezza. La celebrazione di Cristo Re dei singoli e della società è qualcosa che il cuore dei cristiani non può non desiderare, per amore di Lui e per il proprio bene. Ma ora, per questione di “brevità”, non si può più fare (almeno nella Forma Ordinaria). Che la società riconosca Cristo: che altro può auspicare di meglio chi ha a cuore il bene della società stessa? Nelle ultime strofe di ogni inno, prima della revisione, si cantava: “Jesu, tibi sit gloria, / Qui sceptra mundi temperas” (A te, Gesù, sia gloria, che moderi i poteri del mondo). Questi versi sono stati rimaneggiati, perché, spiega Lentini, “l’immagine degli scettri ormai sembrava anacronistica”.

A parte il fatto che l’immagine dello scettro è biblica; ma, scettro o non scettro, la fede ha sempre riconosciuto che il potere del mondo, se non riconosce Qualcuno che gli sta sopra, se non entra nell’ottica di non essere il padrone assoluto della vita e della morte, finisce per essere dispotico. Penso che, alla luce di quello che stiamo vivendo, non siano gli sceptra mundi ad essere anacronistici, ma le motivazioni di chi ha optato per queste asportazioni liturgiche. «Il potere, infatti – diceva Sant’Ambrogio, nell’orazione funebre in onore dell’Imperatore Teodosio -, si abbandonava senza ritegno al vizio e, come bestie, i sovrani si contaminavano in sfrenate libidini e ignoravano Dio. La croce del Signore li frenò e li distolse dalle cadute dell’empietà, fece loro alzare gli occhi perché cercassero in cielo Cristo. Deposero la museruola dell’incredulità, accolsero il morso della devozione e della fede, seguendo Colui che dice: Prendete sopra di voi il mio giogo; il mio giogo, infatti, è dolce e il mio carico leggero”.

Possiamo almeno porci seriamente la domanda se quanto accaduto ad Alfie e a Charlie c’entri con tutto questo? Se il dilagare di una cultura di morte, di dominio, di disprezzo dei piccoli non abbia per caso a che fare col fatto che non vogliamo che Cristo venga a regnare su di noi (cf. Lc. 19, 14)?