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IL FENOMENO

Queerbaiting, fingersi gay (non) conviene

Sempre più diffuso il fenomeno del queerbaiting, quando una persona (o un prodotto) si finge gay per accattivarsi il mondo Lgbt e avere corsie preferenziali. Ma ora c’è chi va a caccia dei falsi gay. Una doppia dinamica, segno che l’omosessualità è assurta a condizione “sacra”.

Editoriali 07_12_2022

Secondo alcuni noi - tra epidemie, guerre, carestie energetiche e apostasie - staremmo vivendo la fine dei tempi. E, come è noto, motus in fine velocior, ossia il moto è più veloce alla fine. Applichiamo questo aforisma in chiave escatologica e possiamo arrischiarci a dire che il processo demolitorio dell’ordine voluto da Dio sta sempre più accelerando, tanto più accelerando che alcuni fenomeni non riusciamo più nemmeno a registrarli, esistono ma non ci accorgiamo che esistono perché troppo recenti. Fenomeni deteriori che sono la rapidissima evoluzione (meglio: involuzione) di altri processi ugualmente rivoluzionari sbocciati solo poco prima.

Se un tempo essere gay veniva stigmatizzato, ora, sempre più spesso e in alcuni ambienti, viene usato come passepartout per farsi accettare, per emergere, se non addirittura per vedersi riconosciuta una corsia preferenziale. Alla faccia di chi sostiene che essere omosessuale significa essere discriminato. Lo stemma gay è così ben visto in certi ambienti che alcuni fingono di essere gay. Il fenomeno è ormai così diffuso che è stato coniato anche un termine per indicarlo: queerbaiting. Ecco quindi un primo costume sociale riguardante la comunità Lgbt ignoto ai più.

Ma ce n’è un secondo ancor più recente legato al primo: la tentazione di fingersi omosessuale per propria utilità è così estesa che ormai si è diffusa anche la caccia a questi impostori, ma con conseguenze paradossali. Ad esempio l’attore Kit Connor, diciottenne, aveva postato dei commenti ammiccanti a suoi colleghi maschi e aveva partecipato al Pride di Londra. Ma poi era stato paparazzato mano nella mano con un’attrice. Da lì l’accusa di queerbaiting, ossia di fingersi gay. Al che Connor è uscito allo scoperto su Twitter: “Sono bisessuale”. Un vero e proprio uovo di Colombo. Connor però nel suo cinguettio ha stigmatizzato questa caccia alle streghe perché in tal modo lui, ad esempio, è stato costretto a fare coming out. Altre vittime del queerbaiting sono le cantanti Taylor Swift, Ariana Grande, Billie Eilish e gli attori Andrew Garfield e Harry Styles, tutti rei di puntare su un’estetica e atteggiamenti molto ambigui.

Ma se facciamo nostre le regole della teoria del gender, potremmo facilmente ribattere alle accuse di queerbaiting affermando che una persona da una parte può benissimo rimanere ambigua nel proprio orientamento sessuale, non schierandosi nettamente né dalla parte etero né dalla parte omo, e su altro fronte nessuno dovrebbe essere costretto a fare coming out dato che il proprio orientamento sessuale è affare privato. Quando invece si millanta un’appartenenza sessuale inesistente, il fenomeno queerbaiting mostra un’ulteriore deriva dell’ideologia Lgbt, dato che si esige la “purezza della razza” ai propri membri tanto che ci si impegna a scovare i falsi gay.

Accanto alla definizione prima indicata, l’Oxford English Dictionary trova un’altra definizione di queerbaiting ad essa contenutisticamente contigua. Il queerbaiting è «la pratica di cercare di attrarre e capitalizzare il pubblico o i clienti LGBTQ in modo ingannevole o superficiale». Se prima avevamo una persona che si fingeva gay per proprio utile, ora abbiamo prodotti commerciali falsamente gay, così presentati per attirare compratori Lgbt oppure semplicemente per riceverne da essi benevolenza e vedersi riconosciuto il bollino blu di prodotto gay friendly. Anche questo a riprova che l’omosessualità a livello sociale non è più disprezzata da tempo nei Paesi occidentali, ma, anzi, assai apprezzata. Ad esempio, come riportato da Il Post, Dean e Castiel, personaggi della serie Supernatural, si sono detti “Ti amo” dopo 15 stagioni. La comunità gay lo ha trovato frustrante e ha criticato gli autori perché pavidi.

Accuse di queerbaiting hanno riguardato anche la serie Sherlock perché l’investigatore inglese più famoso al mondo e il dottor Watson hanno intrecciato un legame di profonda amicizia per innumerevoli puntate, ma alla fine nessuna prova concreta dell’esistenza di una relazione omosessuale può essere addebitata (o, a seconda dei gusti, accreditata) a loro carico. Anche Star Wars: L’ascesa di Skywalker avrebbe ingannato il pubblico gay. Il regista J.J. Abrams aveva dichiarato che nel film ci sarebbe stata una «rappresentazione queer», per poi scoprire che la stessa si “riduceva” ad un bacio saffico tra due comparse avvenuto sullo sfondo. Troppo poco per la comunità gay. Ormai siamo arrivati ad esigere una quota minima di omosessualità da inserire nei film e serie TV per essere socialmente accettabili, come per le bibite all’arancia che, per legge, devono contenere 20 grammi di succo d’arancia per 100 ml per essere definite “aranciate”.

Pare curioso ma anche la Disney, sostenitrice senza riserve dell’agenda Lgbt, viene a volte tacciata di queerbaiting perché alcuni personaggi dovrebbero essere gay ma non lo sono, sia perché amici di persone pari sesso (vedi il personaggio Luca nell’omonimo film di animazione Luca) sia perché hanno semplicemente un carattere mascolino sebbene siano donne (vedi il personaggio della regina Elsa in Frozen o la protagonista di Raya e l’ultimo drago). Insomma gli sceneggiatori non hanno nemmeno più la libertà di disegnare i loro personaggi come vogliono.

In conclusione il fenomeno queerbaiting prova che essere gay paga, tanto che c’è chi millanta di esserlo, e che la psicopolizia Lgbt non ammette simulazioni perché strumentalizzazioni di un’appartenenza che deve perseguire a livello sociale soprattutto fini ideologici e che non può essere piegata a fini economici o di visibilità personale. L’omosessualità è assurta a condizione “sacra”.