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EMERGENZA EDUCATIVA

Quando il "contestatore" comanda nelle università

C’è una differenza fondamentale fra la contestazione attuale e quella degli anni Settanta. Le idee sono identiche, ma quella di 40 anni fa partiva dagli studenti ed era rivolta contro le autorità. Oggi parte dai professori, dai presidi, dai rettori, dai regolamenti universitari e si rivolge contro studenti non allineati.

Educazione 22_05_2016
Il linguaggio d'odio non è libertà di parola

Che nelle università degli Stati Uniti si stia vivendo un nuovo clima di contestazione, in stile Sessantotto, è abbastanza evidente dagli anni ’90, gli anni di inizio dell’era del “politicamente corretto”. La vera notizia è che i grandi media se ne stanno finalmente accorgendo, con più di vent’anni di ritardo. E stanno lanciando l’allarme: attenzione, la libertà di espressione è in pericolo.

I conservatori stanno mettendo in guardia il pubblico statunitense da tempo. L’ultimo articolo sulla libertà minacciata nei campus universitari, a firma di Victor Davis Hanson (storico) sulla National Review, cita una serie di episodi significativi, con un linguaggio molto divertente. Paragona i contestatori di oggi a sceneggiatori un po’ bolliti che riciclano vecchi slogan e protestano “per il gusto di protestare”, senza alcuna coerenza. “In un recente evento sulla correttezza politica all’Università del Massachusetts, tre ospiti sono stati messi a tacere dai contestatori nel pubblico. Il video di uno degli urlatori è diventato virale. Con le maniere di un bambino di due anni, si è messo a strillare per capriccio, interrompendo i relatori, urlando oscenità e ripetendo ‘Fuori da questo campus il tuo linguaggio d’odio!’”. Il problema è che i contestatori non trovano nulla di contradditorio in un comportamento come questo: urlare il proprio odio contro un argomento “di odio” è considerato assolutamente nella norma. 

La penna liberal Nicholas Kristof, due volte premiato con il Pulitzer, scrive sul New York Times (punto di riferimento dei progressisti americani) un editoriale sulla libertà di espressione minacciata nei campus. Intervistando un sociologo afro-americano evangelico, George Yancey, questi gli ha confermato che al di fuori dell’università si sente discriminato in quanto nero, ma nell’università lo è ancora di più perché è cristiano praticante.

Queste censure non sono spontanee. E' ormai noto il caso dell’Università del New Hampshire, che ha emesso un regolamento contro le cosiddette “micro-aggressioni”, cioè tutte le forme di linguaggio che potrebbero essere considerate offensive. Ovviamente è censurata qualunque espressione anche solo vagamente simile all'omofobia, è vietato parlare di “obesi”, chiedere a uno studente latino-americano da dove arriva, persino l’aggettivo “americano”, riferito a uno statunitense, è bandito (perché gli Stati Uniti non devono monopolizzare l’intero continente americano). E la California resta in cima alla lista del nuovo corso. Come scrivono Michael Bloomberg (ex sindaco di New York) e Charles Koch (imprenditore) sulle colonne del Wall Street Journal, “Anche esprimere concetti come ‘l’America è terra di opportunità’ o ‘se lavori sodo puoi fare strada’ è considerata una microaggressione” all’Università della California. Berkeley, Harvard e Yale sono una miniera di esempi di questo genere.

Robby Soave, sul quotidiano (progressista, anche questo) The Daily Beast, dedica un articolo a un altro aspetto del problema: non solo si censurano le "micro-aggressioni", ma si modificano i piani di studi per prevenirle. Come nel caso della American University di Washington, che intende introdurre una serie di nuove materie sulle categorie oppresse. Dunque si studieranno i neri oppressi dai bianchi, la cultura del post-colonialismo, le disuguaglianze, l’accesso alla sanità pubblica, la violenza sociale, ovviamente il gender. Non come parte di altre materie, come la sociologia, ma come materie a se stanti, tutte ovviamente lette attraverso le lenti della lotta di classe. Ci si concentrerà sulla comprensione di “oppressione e resistenza”, “violenze storiche, come il primo commercio degli schiavi e le conquiste genocide” e “l’esperienza di gruppi sociali emarginati e la lotta per i diritti”, cioè “come sistemi consolidati di ineguaglianza emarginano certi gruppi e ne privilegiano altri”. Anche al di fuori delle aule di studio, i dormitori verranno riorganizzati in modo da facilitare la formazione di gruppi di discussione sulle diseguaglianze sociali, con tanto di istruttori che seguiranno il percorso di formazione degli studenti in ogni momento (ma non è lecito parlare di “campi di rieducazione”).

Come si nota da questi articoli, c’è una differenza fondamentale fra la contestazione attuale e quella degli anni Settanta. Le idee sono identiche, ma quella di quarant’anni fa partiva dagli studenti ed era rivolta contro le autorità, sia i professori che gli esponenti delle istituzioni. Oggi parte dai professori, dai presidi, dai rettori, dai regolamenti universitari e si rivolge contro studenti non allineati. Gli urlatori che interrompono o minacciano i conferenzieri o i candidati sgraditi, sono tutti istruiti e aizzati dalle autorità. E’ una rivoluzione “dall’alto”. E non riguarda solo gli Stati Uniti. Anche in Italia, quando un gruppo di attivisti ha interrotto una lezione del professor Angelo Panebianco all’Università di Bologna, sulla pagina Facebook di Roars (frequentata soprattutto da ricercatori e associati) il 90% dei commenti era favorevole all’aggressione. Con argomenti come: “Chi ha potere (come Panebianco) dovrebbe smetterla di fare la vittima”, quasi tutti affermano che “noi facevamo contestazioni ben più serie” rispetto a quelle di oggi e che “gli studenti devono imparare a contestare chi detiene il potere”.

Nessuna sorpresa: il contestatore di ieri, oggi è ricercatore, professore o anche rettore. E non ha cambiato né idee, né metodi. Anche questo è un aspetto dell’emergenza educativa.