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ARTE E FEDE

Quando Dalì dipinse il Vaticano II

Al Museo Dalì di Saint Petersburg, in Florida, ospita opere giovanili e mature del grande Salvador Dalì, descrivendo anche il suo tortuoso cammino verso la riscoperta del cattolicesimo. E in una tela rappresenta il Concilio Vaticano II.

Cultura 23_04_2013
Salvador Dalì - Concilio Vaticano II

In Florida per un congresso, ho potuto visitare a Saint Petersburg la nuova sede del Museo Dalí nell’avveniristico edificio dell’architetto Yann Weymouth, le cui forme fantastiche sono in realtà funzionali alla protezione contro i frequenti uragani di un palazzo pericolosamente costruito sul mare. Quella di Saint Petersburg – con 96 dipinti a olio, oltre a sculture, disegni e oggetti vari – è la più grande collezione mondiale di opere di Salvador Dalí (1904-1989) dopo quanto lo stesso artista raccolse nella sua casa-museo di Figueres, in Catalogna. In Florida la collezione del magnate della plastica, e amico di Dalí, Albert Reynolds Morse (1914-2000) arriva nel 1982, quando il miliardario – inseguito dalle tasse – è costretto a disfarsene. La nuova sede del museo è stata inaugurata nel 2011.

Il grande pregio del museo di Saint Petersburg consiste nel presentare l’intero arco della carriera di Dalí. Se al centro c’è una robusta collezione del periodo più famoso, quello del surrealismo, particolarmente ricche sono le sezioni dedicate alla giovinezza e agli ultimi decenni del pittore catalano. Le opere giovanili mostrano la grandissima padronanza di diverse tecniche di un artista noto oggi quasi solo per i suoi atteggiamenti bizzarri e per il suo desiderio di stupire a ogni costo. Da ragazzo, stupiva invece parenti e professori per la sua capacità di riprendere gli stili di grandi artisti del passato. Il suo «Cestino del pane» del 1926 – realizzato a ventidue anni quando frequentava la Scuola di Arte a Madrid – potrebbe essere facilmente scambiato per un’opera di Jan Vermeer (1632-1675).

Le opere della maturità e della vecchiaia, dopo la rottura con i surrealisti, sono invece caratterizzate dalla riscoperta della religione. Dalí aveva vissuto il conflitto culturale fra cattolici e anticlericali che sarebbe poi sfociato nella tragedia della Guerra di Spagna in famiglia: il padre era un ateo ostilissimo alla Chiesa, probabilmente massone, la madre una cattolica fervente. Le tensioni familiari predispongono Dalì ad accogliere con favore il violento anticlericalismo dei surrealisti, che condivide e che è alimentato dalla relazione con Gala Djakonova (1894-1982), una modella russa moglie del poeta comunista Paul Éluard (1895-1952). Dopo il divorzio con il poeta, Gala sposa Dalí in municipio nel 1932.

Tra il 1949 e il 1950 Dalí inizia un tormentato – e mai completamente concluso – cammino di riscoperta del cattolicesimo. I suoi antichi complessi familiari – i quali spiegano pure il fascino che sul pittore ha Sigmund Freud (1856-1939), che Dalí va a trovare a Londra nel 1938 – hanno creato il personaggio che tutti conoscono: un istrione innamorato soltanto di se stesso, con atteggiamenti da esibizionista difficili da sopportare anche per gli amici e ultimamente nocivi pure alla sua arte. Non vi è dunque da meravigliarsi se molti considerano il ritorno di Dalí al cattolicesimo solo come l’ultima trovata di chi vuole provocare e stupire quanti lo conoscono come un anticlericale. Comunque sia, ci riesce: quando nel 1952 Dalí decide di vendere la sua opera dell’anno precedente «Il Cristo di san Giovanni della Croce» al Museo Kelvingrove di Glasgow, studenti della facoltà di Arte e intellettuali politicamente corretti organizzano una marcia contro l’acquisto – poi concluso – di un’opera scandalosamente cattolica e retrograda da parte di un museo «progressista».

Proprio l’itinerario pittorico proposto dal museo di Saint Petersburg mostra che non si tratta soltanto di un desiderio di scandalizzare e stupire, anche se questo elemento non è mai assente in Dalí. Nel 1949 Dalí è ricevuto in udienza a Roma dal venerabile Pio XII (1876-1958), che s’interessa all’arte contemporanea e ha parole di plauso per la «Madonna di Port Lligat», il primo dipinto «cattolico» dell’artista catalano, pure ancora contrassegnato dalle influenze surrealiste. 

Dalí affermò sempre che il suo ritorno alla religione passava per la scienza, e in questo senso il suo cattolicesimo degli ultimi anni fu segnato dall’influenza – certo di dubbia ortodossia – del teologo e scienziato gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). La scienza contemporanea – con scoperte come quella del DNA – secondo Dalí rende impossibile sottrarsi alla conclusione che deve esistere un Dio creatore di un universo così complesso e ordinato. Ma in una famosa conferenza l’artista affermava: «Credo in Dio, ma non ho la fede. La scienza e la matematica mi dicono che Dio deve esistere, ma io non ci credo». Al di là dell’immancabile gusto per il paradosso, Dalí voleva dire che era convinto razionalmente dell’esistenza di Dio, e anche – come affermerà altrove – della verità del cattolicesimo, ma non riusciva a «sentire» la fede. Eppure imporrà a una riluttante Gala – il cui primo marito era nel frattempo morto – il matrimonio religioso cattolico nel 1958, e morirà nel 1989 confortato dai sacramenti della Chiesa.

La collezione di Saint Petersburg comprende due tele di grandi dimensioni del periodo «cattolico» di Dalí. La prima è «La scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo», del 1958, una celebrazione della Spagna cattolica e dell’epopea di Colombo come trionfo della fede. La seconda – che forse è interessante riscoprire in questo Anno della fede che ricorda il cinquantenario del Vaticano II – è «Il Concilio Ecumenico», un dipinto realizzato nel 1960 dopo l’annuncio dell’indizione del Concilio da parte del beato Giovanni XXIII (1881-1963). Questo enorme dipinto ha un forte valore simbolico. In basso a sinistra l’artista rappresenta se stesso nei panni del pittore Diego Velázquez (1599-1660), con una tela completamente bianca che simboleggia una fase totalmente nuova nella vita di Dalí. Egli scrisse pure che non poteva essere un caso se gli artisti che più ammirava – appunto Velázquez, Vermeer e l’architetto catalano Antoni Gaudí (1852-1926) – erano cattolici. Più in alto la moglie Gala appare nelle vesti di sant’Elena (248-329), la madre dell’imperatore Costantino (274-337) e una santa molto venerata in Catalogna. In alto da sinistra il Figlio, il Logos – il cui corpo si trasforma in particelle atomiche, un’allusione alle riflessioni di Dalí sul rapporto fra fede e scienza moderna –, il Padre – un evidente omaggio a Michelangelo (1475-1564) – e lo Spirito Santo. Al centro l’incoronazione del beato Giovanni XXIII sfuma in una visione da sogno del futuro Concilio.

Tutto è strano in Dalí, e «Il Concilio Ecumenico» non fa eccezione. È particolare anche il suo cattolicesimo, e oggi pochi prenderebbero sul serio – come faceva il pittore – l’entusiasmo acritico per la scienza moderna di Teilhard de Chardin. Tuttavia questo dipinto – e in generale gli ultimi decenni dell’artista – mostrano come l’incontro tra Chiesa e arte contemporanea, per quanto difficile ed esposto a rischi e fraintendimenti, non sia in linea di principio impossibile.