Quali sono i limiti di Napolitano?
Un giorno, forse, si conosceranno i contorni precisi, le responsabilità, i controlli fatti o non fatti, l’esistenza o meno di una tangente del 5%, i comportamenti legali o illegali, chi si è arricchito e quanto si è arricchito nelle operazioni che hanno riguardato il Monte dei Paschi di Siena.
Un giorno, forse, si conosceranno i contorni precisi, le responsabilità, i controlli fatti o non fatti, l’esistenza o meno di una tangente del 5%, i comportamenti legali o illegali, chi si è arricchito e quanto si è arricchito nelle operazioni che hanno riguardato il Monte dei Paschi di Siena. Sapremo, forse, chi poteva evitare che danaro dei cittadini per un ammontare di 3,9 miliardi di euro – lo stesso ammontare versato allo Stato per l’imposta sulla casa nel 2012 – fosse versato per arginare uno scandalo paragonabile a quello della Banca Romana, che travolse la sinistra storica e lo stesso Giolitti qualche decennio dopo la cosiddetta unità d’Italia.
Intanto, sappiamo, che di questo scandalo è meglio parlare con prudenza, perché “va salvaguardato il patrimonio di credibilità e di prestigio, anche fuori d'Italia, di storiche istituzioni pubbliche di garanzia, insieme con la riconosciuta solidità del nostro sistema bancario nel suo complesso”. Sono parole del Presidente della Repubblica, nell’intervista che qualche giorno fa ha rilasciato al direttore del “Sole 24 Ore” e che ha voluto rincarare la dose il giorno successivo, appellandosi alla “chiarezza” e a “tutelare l'interesse nazionale”, evitando il cortocircuito tra stampa e giustizia e tenendo presente il richiamo “piuttosto brusco” della “Procura della Repubblica di Siena, di fronte alla pubblicazione di notizie dichiarate totalmente infondate e che l'ha portata a ventilare provvedimenti per aggiotaggio e insider trading”.
Nel merito, un’osservazione va fatta: l’unico interesse nazionale in gioco dovrebbe essere quello alla verità, a qualunque prezzo. Anche al prezzo di fare chiarezza, se necessario in piena campagna elettorale, sulla trasparenza dei rapporti, peraltro storicamente accertati, tra una Fondazione, una Banca e un partito, così come si fece chiarezza attraverso l’inchiesta “Tangentopoli” di vent’anni fa – che spazzò via tutti i partiti, tranne, appunto, l’allora Partito Comunista Italiano - e come si vuole fare chiarezza oggi, in un processo che si svolge in piena campagna elettorale e che non si intende sospendere, sui rapporti di frequentazione tra il leader di un partito e alcune ragazze.
Tralasciando il merito, va pur segnalato che anche in questa vicenda il ruolo di Giorgio Napolitano appare svolgersi fuori dall’”ordinario”. In base al dettato della Costituzione, l’ordinario” del Presidente della Repubblica è il “silenzio”.
Sulle questioni politiche, innanzitutto, di cui egli non è protagonista, ma spettatore, garante. Se il Presidente della Repubblica intende parlare – com’è avvenuto in questi mesi - dell’ILVA e quindi della politica industriale del Paese o della situazione delle carceri o dello stato della giustizia o della riforma della legge elettorale o di qualsiasi altra questione attinente il processo politico, le decisioni o le inerzie del Parlamento, può certamente farlo, ma esclusivamente con lo strumento che la Costituzione gli consente di esercitare: il messaggio alle Camere. Questa è la regola e questo insegnano i manuali di diritto costituzionale e se la prassi sovverte le norme, si crea un vulnus.
Giorgio Napolitano ha gestito da par suo e con grande maestria questa fase politica, come mai era accaduto nella storia della Repubblica. Un anno fa, quando Berlusconi, leader di una coalizione che aveva vinto le elezioni, pur non venendo sfiduciato dal Parlamento, presenta le dimissioni, invece del rinvio alle Camere, come prescrive in questi casi la Costituzione, il Presidente della Repubblica accoglie le dimissioni e incarica Mario Monti, per giunta previa la sua nomina a senatore a vita, evitando la soluzione più naturale e fisiologicamente congrua rispetto alla situazione che si era creata, quella delle elezioni anticipate, in base al presupposto che queste avrebbero ancora di più reso critica la situazione economica che il Paese attraversava.
Un argomento inconsistente, perché colui che, in base alla Costituzione, deve svolgere il ruolo di “garante”, ha un mandato di valenza superiore a tutti gli altri: garantire, appunto, il libero voto espresso dai cittadini attraverso elezioni democratiche e quindi la loro sovranità (“il popolo è sovrano”, dice la Costituzione).
Questo, non è avvenuto. Ancora: il Presidente della Repubblica non può esprimere giudizi sull’esecutivo in carica e augurarsi che la linea di quell’esecutivo sia premiata. Durante la cerimonia per lo scambio degli auguri con le alte cariche dello Stato al Quirinale, Napolitano ha detto: “i giudizi per i risultati ottenuti" dal governo Monti possono divergere ed è possibile che si facciano più divergenti nel fuoco della battaglia elettorale" e proprio per questo "voglio mettere in guardia perché in quel fuoco polemico non si bruci il recupero di fiducia nell'Italia che si è manifestato nella comunità internazionale e nei mercati". "Attenzione - ha avvertito ancora - è in gioco il Paese, il nostro comune futuro e non solo un fascio di voti per questo o quel partito".
In quei giorni, parteggiava in maniera evidente per il “suo” Presidente del Consiglio, salvo poi ricredersi, prendendo in qualche modo le distanze, a seguito della scelta di Monti di promuovere le sue liste. Per molto, ma molto meno, alcuni dei predecessori di Napolitano – pensiamo, tra i recenti, a Scalfaro o a Cossiga – furono duramente criticati durante il loro mandato. Non erano, come l’attuale, post-comunisti. Abilissimi, questi ultimi, per storia, cultura e tradizione, a ricevere consensi da tutti. Il paradosso è che quell’abilità, anche quando è esercitata sopra le righe, viene considerata come “un baluardo, un “punto di riferimento”, un “porto sicuro”, come ci ricorda ogni domenica il fondatore di “Repubblica” nei suoi editoriali.