Qatargate, "lobbista" non è sinonimo di faccendiere
Da quando è scoppiato lo scandalo delle tangenti dal Qatar in Unione Europea, si ritorna a parlare di "lobbista" in termini dispregiativi, come se fosse sinonimo di faccendiere, o addirittura di mafioso. Ma quella di lobbying è una professione seria. Solo che in Italia non è ancora regolamentata.
Da quando è scoppiato il Qatargate, con prevedibile puntualità è tornato prepotentemente in primo piano il tema delle lobby. L'inchiesta che ha travolto le istituzioni europee sta svelando ramificate trame di corruzione, che nulla c’entrano con la rappresentanza degli interessi, ma c’è chi si ostina a usare in maniera dispregiativa e impropria il vocabolo lobby per etichettare come lobbisti quelli che sono semplicemente spregiudicati faccendieri. Per malafede o per ignoranza corruzione e lobbying continuano ad essere identificati e trattati come sinonimi e questo, al di là delle improvvide semplificazioni giornalistiche, finisce per produrre un danno ulteriore: quello di ritardare l’emanazione di una legge sulla rappresentanza degli interessi che nel nostro Paese non è mai stata fatta. Infatti, il 12 gennaio alla Camera era stata approvata una legge sul lobbying, ma l’interruzione anticipata della legislatura ha impedito che quel testo superasse anche l’esame del Senato.
Nelle ultime settimane, dal punto di vista del dibattito sulla disciplina delle lobby, abbiamo assistito ad esempi negativi e a segnali di speranza. Tra i primi le dichiarazioni sfrontate del senatore grillino Roberto Scarpinato, che è intervenuto sul tema del nuovo Codice degli appalti, paragonando i lobbisti alle mafie. Approccio analogamente giustizialista quello del leader dei 5 Stelle, Giuseppe Conte, che ha lanciato un appello a tutti i leader di partito affinchè venga approvata «una legge sul conflitto di interessi e una regolamentazione del lobbying per contrastare l’affarismo». Come se l’affarismo dipendesse dalle lobby e i lobbisti fossero tutti affaristi.
Invece lasciano ben sperare le dichiarazioni di due esponenti di punta della maggioranza di governo. Anzitutto il Presidente della Camera, Lorenzo Fontana, secondo il quale i parlamentari italiani andrebbero messi al riparo dalle ingerenze di potenze straniere sul processo decisionale nazionale. Una sorta di riaffermazione orgogliosa e perentoria della sovranità nazionale. Poi il Guardasigilli Carlo Nordio che, dalle colonne del Corriere della Sera, ha confermato che all’Italia servirebbe una legge sul lobbying. Il concetto espresso dal ministro della Giustizia è chiaro: per contrastare il malaffare esiste il codice penale, mentre per favorire processi decisionali intrinsecamente democratici e rispettosi della pluralità degli interessi è fondamentale disciplinare l’attività di rappresentanza all’insegna della trasparenza.
D’altronde, nel corso degli anni, non ci sono mai stati lobbisti, intesi come professionisti delle attività di rappresentanza degli interessi, incappati in inchieste di corruzione. Si è sempre trattato, come nel Qatargate, di affaristi e faccendieri, erroneamente e superficialmente definiti lobbisti.
Purtroppo la timidezza e il disinteresse con i quali il mondo politico italiano ha affrontato il tema della legge sulle lobby si sono tradotti in disegni di legge blandi e mai discussi in Parlamento e in regolamenti come quello della Camera dei deputati, che istituiscono Registri di rappresentanti degli interessi su base volontaria e senza particolari vincoli di trasparenza. Col risultato inevitabile di annacquare l’intera disciplina della rappresentanza di interessi. Il vuoto normativo risulta ancor più evidente da quando, dieci anni fa, con la legge Severino, è stato introdotto il reato di traffico di influenze illecite, che ha reso ancora più difficile il lavoro dei lobbisti, spesso accusati di violazione di legge semplicemente per essersi interessati a una pratica burocratica o a una questione di autorizzazioni, permessi o concessione di contributi.
La questione delle lobby si intreccia peraltro con quella del finanziamento della politica, che dipende dalla benevolenza di donatori privati, con il corollario che le decisioni pubbliche spesso risultano orientate nella direzione della protezione di interessi subdoli e a volte illeciti.
Anche per questo occorre anzitutto fissare regole chiare sulle cosiddette “porte girevoli” (revolving doors), dunque mettere un freno alla indisturbata disinvoltura con la quale ex parlamentari, una volta cessato il loro mandato, indossano le vesti di facilitatori, potendo agevolmente accedere a Montecitorio o a Palazzo Madama e ai dossier più strategici per aziende e soggetti privati direttamente coinvolti nei provvedimenti all’esame del governo e del parlamento.
Per sfatare luoghi comuni e incrostazioni semantiche ed affermare una corretta cultura della rappresentanza degli interessi diventa dunque decisiva l’emanazione di una regolamentazione delle lobby. Non solo a livello nazionale. Correttivi andrebbero apportati anche alla disciplina di settore in sede europea. A Bruxelles c’è un Registro della trasparenza, dove i portatori d’interessi che vogliono incontrare le istituzioni europee si possono iscrivere. L’iscrizione è tuttavia obbligatoria solo per la Commissione europea e non per Parlamento e Consiglio europeo, dove è volontaria e quindi non legalmente vincolante. Questo significa che non tutti si registrano per svolgere attività di pressione. Tanto per fare un pertinente accostamento al Qatargate, l’associazione non profit di Panzeri coinvolta nello scandalo non era registrata. A livello di Unione europea, anche i controlli sono scarsi e le sanzioni inefficaci.
Inutile, dunque, piangere sul latte versato. Non si perda altro tempo e si intervenga con gli strumenti legislativi per conferire piena legittimità istituzionale e adeguata protezione normativa alle attività dei lobbisti, preservandone il carattere professionale, al riparo da strumentalizzazioni di sorta.