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PRINCETON

Pronomi gender, professore smaschera la truffa

Robert P. George, professore di giurisprudenza a Princeton, con un sondaggio dimostra quanto poco sia diffusa la causa gender. L'obbligo di rivolgersi a una persona con il pronome del genere di sua scelta è una pretesa solo ideologica.

Famiglia 03_01_2021
Robert P. George

Osare discutere scelte come quella dell’attrice Ellen «Elliot» Page di esigere i pronomi «he/they» - lui e loro -, lo sappiamo, comporta seri rischi; quello che non sapevamo è che su questi temi, ormai, è impossibile anche solo svolgere dei piccoli sondaggi. Eppure è questa l’amara lezione arrivata in questi giorni da uno dei più prestigiosi atenei del mondo, Princeton, dove uno dei suoi cattedratici più noti, Robert P. George, è bersagliato di critiche precisamente per questo motivo. Ma facciamo un passo indietro.

Tutto è nato il 14 dicembre scorso quando George, insigne professore di giurisprudenza fondatore e direttore del James Madison Program in American Ideals and Institutions a Princeton appunto, ha sottoposto ai suoi oltre 63mila suoi seguaci su Twitter un piccolo sondaggio dalla risposta multipla volto sostanzialmente a capire che idea la gente si sia fatta della manifestata esigenza, da parte di alcuni come Page, di pronomi particolari e, in definitiva, non corrispondenti al sesso biologico.

Questo, nello specifico, il quesito formulato da George: «Secondo voi, elencando o affermando i loro 'pronomi preferiti' le persone che cosa si assicurano che gli altri conoscano di loro: il sesso, il genere o l’ideologia?». Su 5.128 utenti che hanno partecipato al sondaggio, la maggior parte ha dato come risposta l’ideologia (53,5%), quindi il genere (45,2%) e, infine, il sesso (1,4%). Se ne ricava quindi come, secondo questa piccola rilevazione, tanti considerino la rivendicazione di pronomi non convenzionali come una scelta anzitutto ideologica. Apriti cielo. Per aver messo in evidenza questo dato, su George si è sollevato un polverone: nella sua stessa università.

Sì, perché secondo il Daily Princetonian, «più studenti» hanno bocciato il sondaggio del professore giudicandolo «transfobico» e negatore delle «esperienze non binarie e di generi non conformi». Ora, non è chiaro se George adesso rischi provvedimenti, probabilmente non essendo uno dei docenti di maggior spicco dell’università; tuttavia la polemica monta, anche se l’interessato appare sereno giudicando ormai prevedibile, in casi come questi, arrivare «ad attaccare la domanda e la persona che osa formularla». Del resto, il docente non è nuovo ad uscite anche più forti.

Basti pensare a quando, nel 2016, twittò un pensiero che, secondo i canoni odierni ancora più di quelli di quattro anni fa, sarebbe bocciato come «transfobico». «Ci sono poche credenze superstiziose ed assurde», fu in quell’occasione il pensiero di George, «come l’idea che una donna possa essere intrappolata nel corpo di un uomo (e viceversa)». Un anno dopo, il giurista rincarò la dose affermando che «considerare un uomo come una donna significa fraintendere la biologia». Tutto si può insomma dire, tranne che a Robert P. George manchi il coraggio delle sue idee.

Solo che in questo caso, lo si ripete, egli si era limitato solo a realizzare un sondaggio. Ingannevolmente strutturato, si ribatterà: d’accordo, ma questo, a ben vedere, è un limite di tante rilevazioni, incluse quelle realizzate da istituti appositamente preposti alla realizzazione di indagini demoscopiche. Il fatto insomma che alcuni abbiano deciso di scagliarsi contro l’illustre giurista, più che da amore per la metodologia corretta dei sondaggi, sembra dovuto a quell’indottrinamento che, ironia della sorte, il tweet del professor George ha portato alla luce con la forza dei numeri. In effetti, è molto curioso il paradosso di cui è impregnata la cultura dominante.

Una cultura che da un lato consente anzi incoraggia la messa in discussione di ogni possibile dogma o anche solo credenza, a partire naturalmente da quelle religiose, ma, dall’altro, porta a bollare come «transfobico» qualunque atto, pensiero – o semplicemente tweet – che osi discutere i comandamenti Lgbt in fatto di “cambio di sesso” e dintorni. Persino la pretesa, da parte di alcuni, di essere interpellati con specifici e bizzarri pronomi, ormai, non può più essere approfondita: va accettata e basta, come una intoccabile rivendicazione. E tanti saluti alla libertà di pensiero, che da pilastro della cultura occidentale ne sta sempre più diventando, ahinoi, ingombrante ospite.