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EDITORIALE

Pressione fiscale illecita e immorale

L'introduzione del redditometro sta accelerando il fenomeno dell'esodo verso la Svizzera. E giustamente perché, in nome della lotta all'evasione, si stanno scardinando i princìpi giuridici di uno Stato di diritto. E senza peraltro recuperare grandi capitali. 

Editoriali 11_01_2013
Fisco predatore

“Partito il redditometro? Parti anche tu”: se si inserisce la parola “redditometro” nei maggiori motori di ricerca, in questi giorni esce tra i primi questo titolo cui segue l’indirizzo di un’agenzia specializzata nell’assistenza al trasferimento di aziende dall’Italia alla Svizzera, compreso il trasferimento o la permuta di beni di lusso (prime fra tutte le auto di grossa cilindrata, motoscafi e altri beni di lusso che il redditometro prende di mira): trasferimenti che sono peraltro perfettamente legali.

Già da tempo era in corso l’esodo verso la Svizzera italiana di piccole e medie imprese lombarde e piemontesi in un Paese straniero vicinissimo dove si parla la stessa lingua, e dove la pubblica amministrazione è rapida ed efficiente, la pressione fiscale è inferiore di 20 punti alla nostra e l’IVA è all’8 per cento invece di essere al 21. Adesso l’esodo tende a trasformarsi in una fuga in massa. Per fortuna dello Stato italiano la Svizzera cisalpina e italofona è fisicamente  troppo  piccola per contenere tutta l’industria delle zone ad essa limitrofe del nostro Paese (che  hanno complessivamente una popolazione pari a quella delle Marche e dell’Umbria messe insieme);  altrimenti tale industria finirebbe per trasferirsi in massa oltre frontiera.

Si parla fin troppo nel nostro Paese del dovere morale del cittadino di pagare le imposte  senza altrettanto sottolineare che ad esso corrisponde il dovere dello Stato di non depredarlo e di non sprecare le entrate fiscali raccolte. E in Italia c’è molta evasione ma anche molto saccheggio e spreco statale delle risorse della società civile. Quello che non si capisce o si finge di non capire - da parte di quel mondo di uomini dabbene di cui l’austero Mario Monti è  campione e stendardo -- è che i due doveri in questione implicano un certo equilibrio tra loro mancando il quale lo stringersi della morsa dei  controlli di polizia fiscale non riesce comunque a ridurre l’evasione al minimo. In compenso deprime i consumi e schiaccia l’economia produttiva spingendo le imprese alla fuga dall’Italia verso altri Paesi dell’Unione Europea o anche altrove. Le imprese piccole e medie migrano verso Paesi vicini, come appunto la Svizzera, e le altre nelle più diverse parti di un mondo la cui economia è ormai globalizzata (come, se lo si vuol vedere, si vede benissimo nel caso della Fiat).

Una pressione fiscale smisurata, come quella che si registra in Italia, è tanto moralmente illecita quanto l’evasione. Sarebbe ora di cominciare a dirlo, e soprattutto di cominciare a tenerne conto. Nel tentativo, obiettivamente protervo, di combattere l’evasione senza ridurre la pressione fiscale entro limiti sostenibili, nel nostro Paese si sta montando una macchina che per vari aspetti viola principi di libertà anche di rilievo costituzionale. Principi la cui attuazione a suo tempo venne giustamente  considerata come uno storico passo avanti sulla via della democrazia. Con la riforma fiscale passata alla storia con il suo nome, ed entrata in vigore nel 1951, il ministro Ezio Vanoni aveva sostituito al principio dell’accertamento dei redditi dei cittadini da parte dello Stato quello della denuncia dei redditi da parte dei cittadini. Con il “redditometro” viene invece reintrodotto  surrettiziamente il principio dell’accertamento, che di natura sua è arbitrario, e per di più agendo non sul lato del reddito ma su quello dei consumi che, essendo nel loro insieme più che mai imponderabili, aprono più che mai la via all’arbitrio o comunque all’ingiustizia.

In linea generale, e non solo nel campo delle imposte, la principale vittima dei più recenti sviluppi della legislazione e della prassi giudiziaria italiana è poi quel fondamentale pilastro della civiltà giuridica che è l’incombenza su chi accusa dell’onere di provare le proprie accuse. Oggi siamo sempre più spesso di fronte a un ribaltamento dell’onere di prova sulle spalle di chi è accusato. Sarebbe ora di rendersi conto che  un simile passo indietro è un pericolo per tutti, contro cui tutti quanti avremmo ottimi motivi per mobilitarci. Può far comodo (ma in ogni caso è un comodo illecito) a organi inquirenti ormai più abituati alla facile ricerca di “collaboratori di giustizia” e di ambigue intercettazioni telefoniche che all’ardua attività investigativa, ma diventa una spada di Damocle appesa sulla testa di chiunque venga preso di mira da un accusatore politicamente forte e con amicizie importanti nel mondo della stampa e della Tv.