Ponte aereo di Kabul. Lo sforzo militare e dei privati
Il ponte aereo da Kabul si è concluso ieri notte. Si chiude così l’ultima finestra di opportunità per lasciare il Paese, rimasto nelle mani dei Talebani. Le forze armate statunitensi hanno svolto il grosso del lavoro. Ma non bisogna dimenticare neppure il ruolo dei privati volontari.
- SE KAMALA SUBENTRA A BIDEN - di Antonio Zama
Il ponte aereo da Kabul si è concluso ieri notte. Si chiude così l’ultima finestra di opportunità per lasciare il Paese, rimasto nelle mani dei Talebani. Le forze armate statunitensi hanno svolto il grosso del lavoro. Ma non bisogna dimenticare neppure il ruolo dei privati volontari.
Gli Stati Uniti hanno fatto decollare ieri sera l’ultimo aereo da trasporto, un C-17, diretto verso il Golfo. I Talebani hanno accolto la partenza degli ultimi americani, dopo 20 anni di guerra, festeggiando sulla pista di un aeroporto ormai deserto, con le consuete raffiche di colpi sparati in aria. Secondo le statistiche del Comando Centrale statunitense (Centcom), in tutto sono stati evacuati 123mila civili dall’Afghanistan in due settimane. Si tratta di sicuramente di uno dei più imponenti sforzi logistici delle forze armate americane e Nato.
Secondo il generale McKenzie, a capo del Centcom, il ponte aereo che si è concluso ieri, è stata “la più grande evacuazione di non combattenti nella storia militare degli Stati Uniti”. Snocciolando le cifre, il generale calcola che siano stati portati in salvo 7500 persone al giorno, in media. Gli Stati Uniti, da soli, hanno esfiltrato 80mila civili afgani e 6mila statunitensi.
Ma è rimasto a terra un numero ancora elevato di americani e di afgani che hanno lavorato con i contingenti alleati. Le stime più attendibili, citate dalla stampa statunitense, parlano di 60mila afgani che hanno lavorato come interpreti, assieme alle loro famiglie. Gli americani rimasti in Afghanistan sarebbero, invece, più di 200. Da oggi, ufficialmente, non hanno più nessuno che possa aiutarli ad uscire dal Paese. Gli ultimi funzionari dell’ambasciata americana a Kabul hanno lasciato l’Afghanistan.
La minaccia di attentati contro i civili in fuga è rimasta fino alle ultime ore. Anche domenica sera, lo Stato Islamico del Khorasan ha rivendicato un attacco di razzi lanciati contro l’aeroporto internazionale. Su cinque, uno è stato intercettato dalla difesa anti-missile americana, gli altri quattro sono caduti lontani da ogni possibile obiettivo. L’aviazione americana ha colpito un veicolo civile, un Suv, usato dai jihadisti come lancia-razzi.
Al di là del gran lavoro delle forze armate, un aspetto interessante e ancora in gran parte sconosciuto è l’impegno dei privati cittadini che volontariamente hanno aiutato, con risorse private, ad evacuare migliaia di civili. Come nella ritirata di Dunkerque (1940) i proprietari di barche e yacht sono stati essenziali per rimpatriare quanti più soldati inglesi potevano, anche a Kabul voli privati, oppure militari ma organizzati da privati, hanno fatto la loro parte. Compagnie di aerei charter hanno continuato a lavorare, in tutte e due le settimane della ritirata. Non senza difficoltà.
Robert Stryk, un lobbista che ha organizzato voli charter da Kabul con l’aiuto di un ex militare delle forze speciali, Scott Taylor, denuncia al New York Post condizioni rese impossibili dalla burocrazia e dalla gestione militare dell’aeroporto: difficile ottenere i documenti necessari per l’espatrio (bastava un errore di pronuncia per non essere riconosciuti, secondo quanto affermano) e difficile, per voli privati, ottenere i permessi di atterraggio. Stryk e Taylor hanno fatto uso degli aerei della Regulus Global, una compagnia specializzata in missioni umanitarie in tanti Paesi difficili del mondo. I due traghettatori hanno fatto ricorso anche ad agenzie di intelligence straniere per aggirare le difficoltà create dalla burocrazia statunitense, hanno creato un loro database per visti e informazioni dei passaporti e raccolto migliaia di richieste di aiuto, cercando di accelerare il più possibile i tempi di imbarco.
Ha avuto molto successo l’iniziativa privata di Zach Van Meter, finanziere intervistato dal Wall Street Journal ieri. Da un hotel di lusso di Washington, ben attrezzato per le comunicazioni, ha diretto le operazioni di recupero di ben 5mila civili, con l’aiuto di funzionari afgani e militari in pensione, riuniti in quella che è stata ribattezzata Commercial Task Force. Grazie ai suoi contatti, il ricco buon samaritano è riuscito a convincere le forze armate degli Emirati Arabi Uniti a mettere a disposizione un aereo cargo C-17, con una sua pista e un suo hangar dedicati. Sul terreno lavoravano, intanto, elementi delle forze speciali coordinate da un ex commando, chiamato Sean, veterano dell’Afghanistan. Il team di volontari negli Usa raccoglieva le richieste di aiuto e le informazioni necessarie per l’esfiltrazione, le forze speciali svolgevano materialmente il lavoro. Brian Kinsella, ex capitano dell’esercito, veterano della missione di soccorso ad Haiti nel 2010, era l’uomo incaricato di compilare le liste delle persone da traghettare fuori dal Paese, assegnando la priorità agli americani, poi agli afgani dotati di permesso di soggiorno negli Usa e infine di quelli a rischio persecuzione. “Noi cerchiamo di aiutare. In alcuni casi non possiamo”.
I 5mila civili evacuati dalla Commercial Task Force sono stati temporaneamente ospitati ad Abu Dhabi ed ora sono in attesa di sapere dove potranno ottenere asilo. Le relazioni del finanziere e dei suoi soci gli hanno permesso di contattare le autorità di vari Paesi, anche non riconosciuti come il Somaliland, oltre ai governi di Ucraina e Albania, per accoglierli come rifugiati politici.
Più celebre ancora è il caso della scuola privata per sole donne la School of Leadership Afghanistan (Sola), che è stata trapiantata in blocco in Ruanda. La fondatrice, Shabana Basij-Rasikh, dopo aver distrutto tutti i documenti che riguardano le studentesse, è riuscita a portare in Ruanda 250 allieve, il personale della scuola, gli insegnanti e le loro famiglie. “Tutte quante sono in viaggio, dopo una sosta in Qatar, vero la nazione del Ruanda, dove intendiamo iniziare un semestre all’estero per tutte le nostre studenti”. Tutte quante sperano di rientrare in patria, non appena le condizioni lo permetteranno.