Politici, non basta più definirsi pro-life a parole
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Non basta più definirsi teoricamente pro-life e poi nei fatti blindare totalmente la Legge 194 senza pensare almeno a correttivi. Riflessioni a margine del caso Aosta che interrogano anche la politica.
Nei giorni scorsi il Centro Donne contro la violenza di Aosta aveva pubblicato sulla propria pagina Facebook un comunicato dove dichiarava di avere ricevuto segnalazioni da parte di donne intenzionate ad abortire sottoposte a indebite interferenze e pressioni da parte di volontari, consistenti nell’imporre l’ascolto del battito fetale. In realtà, che si trattasse di una bufala, o per meglio dire un falso, non era difficile capirlo come ha spiegato ieri Tommaso Scandroglio. Basta una pur minima conoscenza di come funzionano gli ospedali o i poliambulatori pubblici.
Si è mai visto un “volontario” in tali ambiti che presenzia ad una visita o a un esame diagnostico? Avete mai visto un “volontario” presente ad una visita ortopedica o a un prelievo del sangue o ad una risonanza magnetica? Ancora più surreale pensare alla presenza di “volontari” ad una visita ginecologica intenti a fare sentire il battito fetale in corso di ecografia. Una cosa così surreale non meritava nemmeno di essere presa in considerazione, oppure era giusto che fosse attenzionata alla Procura della Repubblica per il reato di procurato allarme presente nella nostra legislazione.
Invece è stata presa sul serio e cavalcata politicamente. In questo momento, dopo la decisione di Macron di blindare l’aborto nella Costituzione francese e dopo il voto del Parlamento Europeo con un indirizzo rivolto agli Stati membri a seguire l’esempio francese, si sta diffondendo anche in Italia, a partire dal Partito Democratico, una gran voglia di rendere l’aborto intoccabile, costituzionale. La Legge 194 deve diventare dogma di fede, intoccabile, irriformabile. E in tal senso deve essere attuata una campagna allo scopo di prevenire ogni tentativo non solo si apportare modifiche, ma anche di dare attuazione alla parte della legge in cui si parla di adeguata informazione alla persona intenzionata a interrompere la gravidanza.
La decisione se abortire o no, che è una scelta delicatissima sia per la vita di un bambino ma anche per la salute della donna stessa, dovrebbe essere realmente consapevole e quindi autenticamente informata. Sembrano affermazioni ovvie e scontate, ma purtroppo evidentemente non è così, se eventuali atti medici tendenti a effettuare una tale valutazione sono duramente rigettati.
Dietro la bufala di Aosta, c’è è infatti una ostilità assoluta e aprioristica verso la possibilità che la donna rifletta sulla realtà della gravidanza. È il rigetto, umanamente incomprensibile, nei confronti di quanto è stato promosso dalla proposta di legge popolare “Un cuore che batte”, che ha proprio lo scopo di mostrare alla madre intenzionata ad abortire la realtà della vita che porta in grembo, mediante una semplice ecografia e l’ascolto del battito cardiaco del figlio, che nei mesi scorsi ha raccolto più di 106mila firme in tutta Italia.
Un provvedimento che dovrebbe trovare il favore di chiunque sostenga di aver a cuore le donne, i bambini, la natalità, la vita. Ma in realtà questa scelta consapevole non la si deve lasciare: una donna intenzionata ad abortire lo deve fare senza se e senza ma e soprattutto senza che questa scelta possa essere messa al confronto con quelli che sono i parametri clinici della sua gravidanza. Ieri Tommaso Scandroglio ha mostrato con grande chiarezza quali sono i motivi deontologici per cui un medico ha tutto il diritto e perfino il dovere di informare adeguatamente una persona riguardo un atto medico. Il problema è che tale buona prassi si è dimostrata efficace, là dove applicata.
Come ha osservato Patrick Mc Crystal, direttore irlandese dell’associazione Human Life International, laddove venga mostrata alle madri intenzionate ad abortire la realtà del figlio che portano in grembo, l’80% delle donne decidono di portare a termine la gravidanza, a prescindere dalle circostanze. Una prassi che salva vite innocenti e garantisce la salute fisica e psichica delle donne non può che essere buona, a dispetto di quanto affermato da parte di chi presiede non certo il Ministero della Salute, ma quello della Famiglia, della Natalità e delle Pari Opportunità, Eugenia Roccella, che, intervenuta sulla questione in un convegno di Fratelli d’Italia, ha affermato che far ascoltare il battito cardiaco alle madri intenzionate ad abortire è una “cattiva prassi medica”.
Innanzitutto, non lo è affatto, e c’è da chiedersi a che titolo la Roccella abbia parlato così. Sarebbe auspicabile che fosse il Ministro Schillaci a definire cosa è o non è buona prassi medica. Inoltre, è tempo che le forze politiche chiariscano in maniera sincera e onesta cosa pensino del valore della vita e come intendano tutelarla.
Non basta più definirsi teoricamente pro-life e poi nei fatti blindare totalmente la Legge 194 senza pensare almeno a correttivi. Anche nell’ambito della campagna di raccolta firme per la proposta di legge Un cuore che batte si sono registrate significative e dolorose defezioni nel mondo pro-life. È una onestà di intenti dovuta nei confronti degli elettori, ma anche nei confronti di tutti coloro che si impegnano nell’aiuto alla vita, e che si vedono oggi in difficoltà nel trovare punti di riferimento in ambito politico.