Pipes, lo storico che svelò la natura del comunismo
Richard Pipes, storico della Russia, è morto all'età di 94 lasciando una ricchissima eredità. I suoi studi sulla rivoluzione russa e il regime bolscevico hanno aperto gli occhi dei presidenti Ford e Reagan sulla vera natura dell'Unione Sovietica. Con Proprietà e Libertà individuò nella proprietà privata la base della società libera occidentale.
Giovedì sera, a Cambridge (Massachusetts), è morto lo storico Richard Pipes, all’età di 94 anni. Il suo nome può dir poco a un pubblico italiano, ma il suo ruolo è stato fondamentale nella storiografia del Novecento. Prima ancora del crollo del muro di Berlino, ha infatti aperto gli occhi del mondo sulla vera natura del comunismo, seppellendo, sotto una mole di documenti originali, i pregiudizi e le fiabe create dalla storiografia marxista.
Nato a Cieszyn, Polonia, da una ricca famiglia di ebrei, quando non era ancora maggiorenne dovette fuggire dall’invasione nazista. Si rifugiò prima in Italia, poi subito dopo negli Usa, nel luglio del 1940. E conquistò la cittadinanza servendo sotto le armi, come aviere, nella Seconda Guerra Mondiale. In Polonia, in quel periodo, non sarebbe sopravvissuto alle purghe delle due potenze totalitarie occupanti. Se fosse rimasto sotto i sovietici, sarebbe stato ucciso perché figlio di un imprenditore. Se fosse rimasto sotto i nazisti, sarebbe stato ucciso perché ebreo. Con un vissuto così, non si può non aprire gli occhi sulla natura mostruosa del totalitarismo novecentesco. Dal 1950, divenendo professore ad Harvard, insegnò la storia della Russia a una generazione di americani che dovette affrontare la guerra fredda, un conflitto che non scoppiò mai, ma che venne ugualmente combattuto soprattutto con le armi della cultura, oltre che dell’ideologia.
Giocò il suo ruolo strategico sotto l’amministrazione Ford, nel 1976. Il presidente repubblicano, succeduto a Nixon dopo lo scandalo del Watergate, riunì una squadra di esperti per capire quali potessero essere le prossime mosse dell’Unione Sovietica. Deluso dalle analisi della Cia, che per tutti gli anni della Guerra del Vietnam aveva sottostimato le capacità militari dell’Urss, Ford incoraggiò la costituzione di un gruppo di esperti non inquadrati nella Cia e più liberi dai suoi schemi, chiamato President's Foreign Intelligence Advisory Board (Consiglio per la consulenza al presidente negli affari esteri, Pfiab). Pipes fu convocato per guidare il gruppo di analisi, chiamato Team B, del Pfiab, che produsse un rapporto molto diverso dalle stime fino a quel momento prodotte dagli analisti dei servizi segreti. Lo storico di Harvard spese tutta la sua conoscenza della storia russa e sovietica per veicolare un messaggio fondamentale: la politica estera di Lenin, Stalin, Chrushev e Brezhnev non è mai stata reattiva, ma attiva. Non può essere letta come una reazione ad aggressioni esterne, ma come una dinamica e bellicosa promozione della rivoluzione comunista in tutto il mondo. Il modo migliore per affrontare una potenza rivoluzionaria non è tanto (e non è solo) il contenimento militare, ma la guerra ideologica. Ad una rivoluzione si doveva rispondere con una contro-rivoluzione. Questi consigli vennero recepiti in pieno dalla successiva amministrazione repubblicana, guidata da Ronald Reagan, che lo cooptò nel nuovo Consiglio per la sicurezza nazionale.
L’aspetto più interessante di tutta l’opera di Pipes è, appunto, la comprensione del fenomeno rivoluzionario. Nel suo monumentale La rivoluzione russa (Mondadori 1994), Pipes, sulla base di documenti originali, riuscì a dimostrare come una esigua minoranza di intellettuali-rivoluzionari di professione si fosse impossessata del più grande paese del mondo per farne l’oggetto del loro sogno: il trampolino di lancio di una rivoluzione mondiale. Lenin andò contro le masse russe, contro gli stessi Soviet, contro gli interessi nazionali russi (accettando anche l’amputazione di ampie parti del suo territorio) per conquistare militarmente il potere, conservarlo a tutti i costi ed esportare il comunismo. In questa ottica, tutto ciò che pare insensato, come il trattato di Brest Litovsk (1917), il patto Ribbentrop-Molotov (1939), l’evidente doppiezza della diplomazia sovietica in tutte le circostanze successive, trovano una loro logica collocazione in un’unica strategia di lungo periodo: la diplomazia, i trattati, le relazioni commerciali sono espedienti temporanei dettati dalle circostanze, pace e distensione sono tregue temporanee, ma il fine da perseguire è la rivoluzione mondiale. Un obiettivo che è stato in gran parte raggiunto, conquistando ampie fette di mondo, pazientemente, pezzo dopo pezzo. Mentre Pipes lavorava al Team B, consiglieri sovietici erano all’opera in Vietnam (appena caduto), Laos, Etiopia, Angola, Mozambico. Mentre scriveva la storia della Rivoluzione, i comunisti sovietici erano arrivati anche alle porte degli Usa, in Nicaragua e a Grenada.
La stessa logica vale anche per la politica interna dei regimi comunisti e spiega sia la loro irriformabilità che la loro crudeltà estrema nei confronti dei propri cittadini. Pipes, nel suo Il regime bolscevico (Mondadori, 2000) dimostra la perfetta continuità fra il sistema messo in piedi da Lenin e quello ereditato e perfezionato da Stalin. Non c’è uno "stalinismo" contro un "leninismo" (mito adottato dai comunisti per difendersi dalle accuse di genocidio): è sempre stata la stessa cosa. Fu Lenin a introdurre la polizia politica, i gulag, il terrore di massa, il controllo totale delle coscienze dei cittadini. Stalin vi aggiunse solo il proprio culto della personalità e perfezionò quel che c’era già. L’obiettivo, anche qui, era la rivoluzione: cambiare i connotati della società per fare l’uomo nuovo. Sbaglia anche chi legge la storia del regime sovietico in continuità con il vecchio regime zarista. Per Pipes, la cesura è netta: l’Urss non era più Russia, era un esperimento completamente nuovo. Mirava al mondo, non ad allargare i propri confini.
Non tutta l’opera di Pipes si riduce alla critica del sistema comunista. Il cuore della sua idea di società si trova in Proprietà e libertà (Lindau, 2008) dove lo storico spiega che, in tutta la storia umana, dall’era classica ad oggi, è la proprietà privata il primo baluardo della libertà e dei diritti. Solo laddove la proprietà privata viene tutelata, cresce una cultura dei diritti umani che limita il potere arbitrario del sovrano e dello Stato. E sono queste le basi di quella contro-rivoluzione che, sotto le amministrazioni Reagan, spazzò via l’impero rosso, senza combattere, in appena otto anni.