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SINODO

Perché no alla comunione per i divorziati

Il divorziato risposato sarà per sempre escluso dalla possibilità di comunicarsi? No, potrà di nuovo farlo a patto di confessarsi validamente. Così il documento della Cei “La pastorale dei divorziati risposati e di quanti vivono in situazioni matrimoniali difficili”.

Ecclesia 07_10_2014
La dottrina dice no alla comunione ai divorziati

Il divorziato risposato sarà per sempre escluso dalla possibilità di comunicarsi? No, potrà di nuovo farlo a patto di confessarsi validamente. Così il documento della Cei “La pastorale dei divorziati risposati e di quanti vivono in situazioni matrimoniali difficili”: «Per la Comunione eucaristica rileviamo, anzitutto, che senza Riconciliazione sacramentale non è possibile mangiare il corpo e bere il sangue del Signore» (27). E dunque via obbligatoria per accedere alle Sacre Specie è il sacramento della riconciliazione dato che il divorziato risposato persevera in un peccato grave che lo rende indegno dell’Eucarestia. Così il canone 915 del Codice di Diritto Canonico. «Non siano ammessi alla sacra Comunione gli scomunicati e gli interdetti, dopo l’irrogazione o la dichiarazione della pena e gli altri che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto».  A cui segue il can. 916: «Colui che è consapevole di essere in peccato grave, non celebri la Messa né comunichi al Corpo del Signore senza premettere la confessione sacramentale».

Qualche teologo sostenne che i divorziati risposati non rientravano nella categoria di coloro che «perseverano in peccato grave e manifesto» e quindi potevano anche comunicarsi tranquillamente senza confessione. Nel 2000 dovette scendere in campo il Pontificio Consiglio per i testi legislativi con la Dichiarazione “Circa l’ammissibilità alla santa comunione dei divorziati risposati” per fare chiarezza sul punto. Il Pontificio consiglio ricordò che «la proibizione fatta nel citato canone, per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive: queste non possono indurre cambiamenti legislativi che si oppongano alla dottrina della Chiesa» (1); che «ricevere il corpo di Cristo essendo pubblicamente indegno costituisce un danno oggettivo per la comunione ecclesiale; è un comportamento che attenta ai diritti della Chiesa e di tutti i fedeli a vivere in coerenza con le esigenze di quella comunione. Nel caso concreto dell’ammissione alla sacra Comunione dei fedeli divorziati risposati, lo scandalo, inteso quale azione che muove gli altri verso il male, riguarda nel contempo il sacramento dell’Eucaristia e l’indissolubilità del matrimonio. Tale scandalo sussiste anche se, purtroppo, siffatto comportamento non destasse più meraviglia: anzi è appunto dinanzi alla deformazione delle coscienze, che si rende più necessaria nei Pastori un’azione, paziente quanto ferma, a tutela della santità dei sacramenti, a difesa della moralità cristiana e per la retta formazione dei fedeli»(ib.). 

Da ciò consegue che «qualunque interpretazione del can. 915 che si opponga al suo contenuto sostanziale, dichiarato ininterrottamente dal Magistero e dalla disciplina della Chiesa nei secoli, è chiaramente fuorviante. Non si può confondere il rispetto delle parole della legge (cfr. can. 17) con l’uso improprio delle stesse parole come strumenti per relativizzare o svuotare la sostanza dei precetti» (2). 

Il Pontificio Consiglio poi chiarisce che il divorziato risposato rientra nella categoria dei peccatori esclusi dalla comunione per i seguenti motivi: in primis la qualità dell’illecito morale e di fede è grave nel suo contenuto, al di là del fatto che il divorziato risposato ne sia consapevole o meno: «a) il peccato grave, inteso oggettivamente, perché dell’imputabilità soggettiva il ministro della Comunione non potrebbe giudicare». É un po’ come se un cuoco servisse ai suoi clienti delle pietanze avvelenate. Poco importerebbe che il cuoco fosse cosciente di attentare alla vita dei suoi clienti: bisognerebbe comunque e in ogni modo impedirgli di continuare a cucinare. Altro impedimento che implica il divieto nell’accedere alla comunione: «b) l’ostinata perseveranza, che significa l’esistenza di una situazione oggettiva di peccato che dura nel tempo e a cui la volontà del fedele non mette fine, non essendo necessari altri requisiti (atteggiamento di sfida, ammonizione previa, ecc.) perché si verifichi la situazione nella sua fondamentale gravità ecclesiale». Ed infine «c) il carattere manifesto della situazione di peccato grave abituale»(2).

Il documento non lascia spazio a dubbi: finchè si vive in peccato mortale la comunione va negata, seppur si chieda ai sacerdoti di spiegare ai diretti interessati ed eventualmente alla comunità la ragione di questo divieto: «I Pastori devono adoperarsi per spiegare ai fedeli interessati il vero senso ecclesiale della norma, in modo che essi possano comprenderla o almeno rispettarla. Quando però si presentino situazioni in cui quelle precauzioni non abbiano avuto effetto o non siano state possibili, il ministro della distribuzione della Comunione deve rifiutarsi di darla a chi sia pubblicamente indegno. Lo farà con estrema carità, e cercherà di spiegare al momento opportuno le ragioni che a ciò l’hanno obbligato. Deve però farlo anche con fermezza, consapevole del valore che tali segni di fortezza hanno per il bene della Chiesa e delle anime» (3). 

Infine un’indicazione assai preziosa per i padri sinodali che in queste ore stanno lavorando proprio su questo tema: «Tenuto conto della natura della succitata norma (cfr. n. 1) [cioè di carattere divino] nessuna autorità ecclesiastica può dispensare in alcun caso da quest’obbligo del ministro della sacra Comunione, né emanare direttive che lo contraddicano» (4).