Perché la Corea del Nord continua a lanciare missili
Mentre il mondo è distratto dalla pandemia, la Corea del Nord (che continua ad affermare di non aver alcun caso di coronavirus entro i suoi confini) ha ripreso a effettuare una serie di test missilistici, a ridosso della Corea del Sud e del Giappone, provocando un comprensibile nervosismo.
Mentre il mondo è distratto dalla pandemia, la Corea del Nord (che continua ad affermare di non aver alcun caso di coronavirus entro i suoi confini) ha ripreso a effettuare una serie di test missilistici, a ridosso della Corea del Sud e del Giappone, provocando un comprensibile nervosismo.
Domenica scorsa, la Corea del Nord ha lanciato i missili nel Mar del Giappone per la quarta volta in un mese. Nel corso del test, il dittatore Kim Jong-un, che solitamente presiede gli eventi militari, era per la prima volta assente. A dirigere le operazioni era invece il ministro delle Munizioni, Ri Pyong-chol. Secondo fonti di intelligence sudcoreane, l’ordigno ha compiuto un volo balistico di 230 km per andare poi a inabissarsi ai confini della Zona economica esclusiva del Giappone. Si tratterebbe di un missile balistico a corto raggio Kn-25. La Kcna, l’agenzia stampa del regime di Pyongyang, ha salutato l’evento come “una nuova verifica della capacità tattica e tecnologica del sistema di lancio che verrà consegnato alle unità dell’Esercito Popolare Coreano”. Stando alla stessa agenzia nordcoreana, in passato vi sarebbero state anche delle difficoltà tecniche che hanno rallentato la consegna del nuovo sistema d’arma all’esercito. Nei precedenti tre test, effettuati dall’inizio di marzo, sono stati testati sia Kn-24 che Kn-25, tutti missili balistici tattici a corto raggio, che potrebbero essere impiegati in un’eventuale campagna contro la Corea del Sud, ma non costituirebbero una minaccia per il Giappone (né tantomeno per gli Stati Uniti).
Resta da capire perché l’ermetico regime comunista abbia deciso di condurre tutte queste esercitazioni proprio in marzo, quando il pensiero di tutti i governi asiatici (e del mondo in generale) va alla sopravvivenza della propria popolazione. La spiegazione degli analisti sudcoreani, i più vicini mentalmente e fisicamente al “regno eremita”, ritengono che l’esercito c’entri poco. Quel che è in gioco è la leadership di Kim Jong-un in un momento molto difficile per il suo Paese. È vero che le informazioni ufficiali parlano ancora di 0 (zero) contagi di coronavirus nei suoi confini. Ma la possibilità che uno stretto lembo di terra compresso fra i due maggiori focolai asiatici della pandemia sia immune è veramente molto bassa. Tutte le informazioni sono state silenziate, i diplomatici stranieri e il loro personale sono stati rinchiusi in una lunga quarantena di un mese. Nell’assenza di informazioni ufficiali, si sa solo che la campagna lanciata dal regime è considerata una questione di “sopravvivenza nazionale”.
La propaganda ufficiale del regime vanta una piena autosufficienza (Juche) quale obiettivo nazionale prioritario e anche in questo caso, Kim Jong-un ha sdegnosamente rifiutato l’offerta di aiuti medici internazionale, benché nel suo Paese potrebbe mancare tutto. Il leader comunista aveva inviato una lettera di solidarietà al presidente sudcoreano Moon Jae-in quando l’epidemia si è diffusa in Corea del Sud, ma non ha ancora risposto a una missiva di Donald J. Trump, con cui il presidente statunitense ribadiva di non voler interrompere i buoni rapporti e offriva aiuto. I colloqui sulla denuclearizzazione della Corea, iniziati l'anno scorso fra Usa e Corea del Nord, sono giunti ad uno stallo, Kim Jong-un, con il suo silenzio, non vuole essere il primo a rompere il ghiaccio. L’atteggiamento di completa chiusura e i lanci dei missili in questo mese potrebbero distrarre da una crisi interna gravissima, di cui sarà possibile verificare l’esistenza e l’entità quando sarà troppo tardi.