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IL PERSONAGGIO / MASIH ALINEJAD

«Per l’Iran l’hijab obbligatorio è come il muro di Berlino»

Una delle figure rappresentative della rivolta delle donne iraniane contro il regime degli Ayatollah è la giornalista e blogger Masih Alinejad, che dall’esilio americano alimenta la protesta attraverso i social media. Ma manda un avviso anche al mondo libero: «O i Paesi democratici si uniscono per porre fine al terrore islamico, o i terroristi islamici metteranno fine alla democrazia».

Esteri 21_10_2022 English
Masih Alinejad

«Per la Repubblica islamica dell'Iran l'hijab obbligatorio è come il muro di Berlino, se viene abbattuto la Repubblica islamica non esisterà più. Ecco perché queste proteste li spaventano e sparano a persone innocenti». Masih Alinejad, giornalista iraniana di 46 anni, è una delle voci più potenti del momento e una spina nel fianco per gli ayatollah che governano lo Stato islamico dell'Iran.

Aveva 2 anni quando nel 1979 lo Scià dell'Iran fu deposto e l'Ayatollah Khomeini tornò dall'esilio per guidare l'Iran come una Repubblica islamica. Da quel momento in poi, dice Masih, tutto è stato diverso, le persone sono diventate infelici. E lei ha manifestato il suo spirito ribelle: a scuola, si è unita a un movimento di protesta clandestino e a 18 anni è stata arrestata e messa in carcere. «Quel periodo in isolamento è stato il momento più spaventoso della mia vita», ammette, ma ha anche affinato la sua determinazione a lottare per i diritti delle donne in Iran. Dopo la sospensione della pena si è riqualificata come giornalista, ma anche qui non ha trovato pace: è stata infatti sospesa come giornalista parlamentare per aver indossato scarpe rosse, e poi licenziata per aver criticato i membri del governo. Finché nel 2009, sentendo che la sua vita era in pericolo, è fuggita dal Paese. Si è trasferita prima nel Regno Unito per un periodo di studio e poi nel 2014 Masih si è trasferita a New York City, dove vive protetta dall’FBI e cambia continuamente indirizzo, visto che è già stata oggetto di due attentati. E oggi raccogliere il sostegno alle proteste nel suo Paese occupa la maggior parte del suo tempo.

In effetti le proteste sono al loro secondo mese e la dittatura teocratica iraniana sta visibilmente perdendo la presa di giorno in giorno. Per loro, «non si tratta di un pezzo di stoffa», spiega Masih dall'esilio in America, «l'hijab obbligatorio è il pilastro principale di questo regime di apartheid di genere». «Le autorità stanno osservando me e la mia campagna contro l'hijab obbligatorio – afferma ancora – perché sanno quanto sia potente la protesta delle donne comuni. Un giorno il regime iraniano sarà abbattuto dalle donne».

Il governo iraniano osserva Masih da tempo ormai, anche molto prima che scoppiassero le proteste. Le sue apparizioni pubbliche attirano folle enormi, i suoi video su YouTube che denunciano lo Stato islamico dell'Iran sono visti e recensiti da decine di migliaia di persone e Masih ha conquistato 10 milioni di follower su Facebook, Instagram e Twitter. Inoltre, la maggior parte dei suoi seguaci vive in Iran e, nonostante il governo abbia bloccato i siti dei social media, molti iraniani continuano a seguirla utilizzando reti private per pubblicare sui suoi profili video e foto di ciò che sta accadendo in Iran. In questo modo milioni di iraniani possono vedere il coraggio dei propri connazionali e quanto le loro posizioni siano condivise. Anche i tentativi del governo di screditare la sua immagine, accusandola sistematicamente nei programmi della tv di stato di essere una traditrice e una tirapiedi di potenze straniere, hanno avuto un impatto limitato.

Da quando sono scoppiate le proteste in seguito alla morte il 16 settembre della 22enne Mahsa Amini, probabilmente per mano della polizia morale del Paese, si ritiene che almeno seimila persone siano state arrestate. L'età media delle persone attualmente detenute in carcere in Iran è di 15 anni. Finora, i gruppi per i diritti umani stimano che oltre 224 persone siano state uccise durante la repressione. Mentre, secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, le autorità hanno arrestato almeno 40 giornalisti che tentavano di controllare le notizie.

Senza dubbio le manifestazioni, che ormai trascinano in piazza anche bambini in età scolare, lavoratori petroliferi e altri in più di 100 città, rappresentano la sfida più seria alla teocrazia iraniana dai tempi delle proteste di massa in occasione delle contestate elezioni presidenziali del 2009. Non è solo la rabbia per la morte di Amini che alimenta le manifestazioni in corso, ma anche la profonda insoddisfazione per la vita sotto il regime. Gli iraniani hanno perso la speranza per il futuro sotto lo Stato islamico: hanno visto svanire i loro risparmi di una vita; la valuta del paese, il rial, è crollata e l'accordo nucleare di Teheran con le potenze mondiali è sempre in alto mare. Soprattutto, gli iraniani hanno perso la loro libertà.

Tuttavia, c'è qualcosa di nuovo nell'aria in Iran. La promessa del cambiamento sta investendo il paese come un domino. Le scene delle donne iraniane che agitano trionfalmente le loro sciarpe sopra la testa, o ballano e bruciano coraggiosamente i loro hijab nei falò in pubblico, sono molto più impressionanti delle immagini delle forze di sicurezza iraniane che picchiano violentemente donne indifese per essersi sciolte i capelli. «Questa è la gioia di essere liberi dalla schiavitù della repressione – dice Masih –. Le autorità possono portarci via tutto, famiglia, casa, amici e Paese, ma non possono toglierci la speranza».

Il cambiamento era l'obiettivo di Masih quando ha iniziato la sua prima campagna nel 2014, facendo pressione sul regime iraniano dall'esterno utilizzando i social media. È iniziato con un'istantanea di Masih scattata a Londra, che correva gioiosamente per la strada, con i suoi capelli ricci al vento. Ha pubblicato la foto sulla sua pagina Facebook con un messaggio per spiegare che nel suo paese questo semplice atto sarebbe illegale e potrebbe portare all'arresto. Immediatamente ha spronato altri a unirsi a lei. In pochi giorni è nata una campagna chiamata “My Stealthy Freedom” (La mia libertà nascosta), che invitava le donne a condividere loro foto senza l'hijab e a inviarle la prova così da pubblicarla sulla sua pagina Facebook. «Le nostre macchine fotografiche sono le nostre armi», afferma Masih in un grido di battaglia. «Le donne sembrano impotenti perché il governo ha il potere, le armi, i soldi e le carceri», ma le donne possono sconfiggerlo condividendo «la prova della loro pacifica sfida». La campagna è decollata trasformandosi in una campagna ancora più grande per la libertà nelle strade dell'Iran.

Ma Masih non è soddisfatta neanche del «deludente» mondo libero, che sprona ad agire con forza contro il regime islamico. Si è espressa contro le sanzioni mposte all'Iran nel 2009: hanno ulteriormente impoverito quelli che erano già i più poveri, mentre il leader supremo, l'ayatollah Ali Khamenei, ha aumentato il budget destinato alla polizia morale per rafforzare il controllo sulle donne. Dice ancora Masih: «Gli iraniani vivono già sotto le sanzioni del governo che ci privano di assistenza sanitaria dignitosa, libertà e prosperità». Ha anche implorato i leader democratici di non concentrarsi su un accordo nucleare senza chiedere a Teheran di rispettare i diritti umani per le donne in Iran. Ma soprattutto ha denunciato il silenzio delle femministe occidentali che dichiarano «il mio corpo è la mia scelta» ma non fanno nulla per sostenere le donne che non hanno scelta, i cui corpi sono usati come campo di battaglia politico. «Perché non vengono in strada e danno voce a queste persone innocenti e mostrano la loro sorellanza», dice Masih. «Stato islamico significa che dall'età di sette anni le ragazze in Iran devono coprirsi i capelli e indossare abiti larghi. Niente hijab significa niente istruzione, niente uscite, niente lavoro, essere legittimamente picchiate, imprigionate, violentate e uccise».

Masih avverte il mondo libero che si trova a un bivio: «O i Paesi democratici si uniscono per porre fine al terrore islamico, o i terroristi islamici si uniranno e metteranno fine alla democrazia».