Per la Scaraffia non tutte le vite sono "desiderabili"
Già firma dell'Osservatore Romano, la professoressa considera preferibile desistere dalle terapie salvavita se la tecnologia prolunga la vita di una persona che un tempo non sarebbe sopravvissuta. Ma allora non dovremmo più curare quasi nessuno.
La Verità intervista il 19 dicembre scorso Lucetta Scaraffia, professoressa di Storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma, membro del Comitato Nazionale di Bioetica e già firma de L’Osservatore Romano. Molti sono i punti toccati dalla Scaraffia, alcuni dei quali condivisibili. Qui, per motivi di spazio, ne analizzeremo solo alcuni.
In primis la prof.ssa Scaraffia critica il Papa perché «a volte dice frasi terribili» come quando ha paragonato l’aborto all’assoldare un sicario per risolvere un problema. «Ha fatto inorridire ogni donna. […] Qui si parla del corpo delle donne, della sofferenza fisica e psicologica…», replica la Nostra.
Alcune riflessioni. La prima: come chiedeva Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae, «occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome» (58). È l’abortismo che vuole occultare il fatto che l’aborto sia un assassinio. Parliamo tanto di consenso informato: informiamo tutti su qual è la realtà dell’aborto. In secondo luogo dovremmo forse evitare espressioni dure, perché vere, ad esempio quando parliamo di pedofilia per non far inorridire i pedofili? In terzo luogo l’aborto fa male al bambino, ma anche alla madre. La Scaraffia è giustamente in apprensione per la salute della donna. E volendo tenere in considerazione anche solo la salute della donna, c’è una sconfinata letteratura scientifica che testimonia che di fronte ad una gravidanza indesiderata è meglio per la salute della donna portare a termine la gravidanza piuttosto che ricorrere all’aborto.
Il rieletto membro del Comitato Nazionale di Bioetica chiede inoltre ai cattolici di essere meno dogmatici perché «l'approccio dogmatico […] è destinato a perdere». Come rispondere? Si risponde ricordando che vi sono atti che sono sempre malvagi. L’assassinio, anche quello perpetrato sul nascituro e sul paziente moribondo, è uno di questi. Dal punto di vista morale, quindi, questi atti sono da vietare sempre e comunque, senza se e senza ma. Senza eccezioni. Doveroso perciò essere intransigenti su tali condotte. Ecco perché sugli assoluti morali la Chiesa è dogmatica, perché deve essere dogmatica. Non si vorrà forse, per compiacere gli altri e per aprire spazi di dialogo, retrocedere dall’affermare, ad esempio, che l’aborto e l’eutanasia siano azioni intrinsecamente malvagie? La stessa Scaraffia – e ce ne compiacciamo – è giustamente dogmatica quando afferma in relazione all’eutanasia:«Questa è da escludersi in modo assoluto. […] Sull'eutanasia non sono possibili aperture». E parimenti su utero in affitto e riconoscimento della adozioni gay avvenute all’estero la Scaraffia commenta: «Noi non possiamo accettarlo». Viene allora da chiedersi su quali materie la prof.ssa Scaraffia ci chiede di non essere dogmatici. Il prosieguo dell’intervista a questo proposito può essere illuminate.
Si arriva infatti a parlare di eutanasia. «Oggi ci sono tante persone che stanno in una zona grigia tra la vita e la morte – afferma Scaraffia – in questi casi, è lecito discuterne in termini concreti. Persino la Chiesa è contraria all'accanimento terapeutico». Il giornalista chiede di spiegare meglio cosa intenda per «zona grigia». Ecco la risposta: «È quella in cui si finisce attraverso il ricorso ai metodi delle moderne tecnoscienze. Per intenderci, sono le condizioni in cui versava la povera Eluana Englaro. Persone salvate secondo me in modo sbagliato: non si possono salvare tutti con tentativi di rianimazione effettuati oltre il tempo massimo per evitare danni cerebrali irreversibili. Un tempo, una situazione come quella di Eluana non si sarebbe verificata, per il semplice fatto che un individuo in quelle condizioni sarebbe morto subito. […] È ragionevole mettere in discussione le tecniche mediche mediante le quali si riescono a tenere in vita persone che, diversamente, sarebbero morte. E che, invece, si vengono a trovare in una condizione per nulla desiderabile».
La Scaraffia, come molte altre persone, considera accanimento terapeutico ciò che in realtà è eutanasia. L’accanimento clinico è un trattamento sproporzionato rispetto ai fini, ossia un trattamento che provoca più danni che benefici (trattamento dannoso) o che provoca danni e benefici in misura uguale (trattamento inutile). Prendiamo il caso di Eluana, che per la Scaraffia era sottoposta ad accanimento terapeutico. Eluana non era attaccata a nessuna macchina, tanto è vero che per farla morire le hanno dovuto togliere acqua e cibo, cioè i mezzi di sostentamento vitale da cui noi tutti dipendiamo: un classico caso di eutanasia omissiva. Le cure normali a cui era sottoposta erano assolutamente proporzionate.
Ma per la Scaraffia accanimento terapeutico sarebbe tenere in vita una persona disabile, come Eluana, oppure salvare la vita ad una persona a costo di danni gravissimi all’encefalo facendola precipitare «in una condizione per nulla desiderabile». Tuttavia, gli interventi salvavita sono nella stragrande maggioranza dei casi (fanno eccezione quelli che tengono in vita la persona per poco tempo a costo di effetti negativi ingentissimi) sono sempre proporzionati, proprio perché soddisfano il loro compito specifico: salvare la vita di una persona, anche se poi rimane disabile. Il gioco vale la candela.
Rifiutare di tenere in vita una persona perché disabile, non dandole le cure adeguate, oppure rifiutare di salvare la vita di una persona perché la sua qualità della vita ne risentirebbe significa praticare l’eutanasia omissiva: ti uccido non dandoti le cure utili a vivere per evitare il dolore di una vita menomata. Nessuna zona grigia: questa è banalmente e amaramente una zona nera. Nera come il male. Tale prospettiva non è quella della morale naturale né quella della Chiesa cattolica la quale, invece, sposa il principio dell’indisponibilità della vita che si lega al concetto di dignità personale, presente in modo perfetto anche nelle persone disabili. La Scaraffia, di contro, sposa il principio della disponibilità della vita allorquando la qualità della stessa non è più accettabile. Sotto un certa soglia di “desiderabilità” meglio staccare la spina.
Il principio secondo il quale sarebbe preferibile desistere dalla terapie salvavita quando la tecnologia può protrarre la vita di una persona oltremodo, destinandola però spesso ad un’esistenza poco “desiderabile”, è stato rifiutato da Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae: «Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati, la scienza e la pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili e di lenire o eliminare il dolore, ma anche di sostenere e protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, di rianimare artificialmente persone le cui funzioni biologiche elementari hanno subito tracolli improvvisi, di intervenire per rendere disponibili organi da trapiantare. In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine «dolcemente» alla vita propria o altrui» (64).
Riguardo poi al fatto che un tempo le persone nelle condizioni di Eluana sarebbero morte e che «è ragionevole mettere in discussione le tecniche mediche mediante le quali si riescono a tenere in vita persone che, diversamente, sarebbero morte», è altrettanto ragionevole ribattere che, seguendo questo principio, non dovremmo più curare quasi nessuno dato che un tempo non c’erano terapie che oggi ci sono. Facciamo dunque morire i pazienti oncologici perché una volta non c’era la chemioterapia e la radioterapia? Facciamo morire i pazienti con il diabete perché una volta non c’era la dialisi? E’ dovere morale (affermativo contingente) dell’uomo usare tutti i possibili ritrovati della tecnica medica attualmente disponibili per curare e salvare le vite delle persone.
La prof.ssa Scaraffia infine aggiunge una nota interessante: «Si ricordi che, nel 1952, Pio XII, quando gli fu chiesto un parere sulle persone rianimate e tenute in vita con la respirazione artificiale, rispose che, a suo avviso, l'anima le aveva già abbandonate». Non ci risulta che Pio XII si espresse su questo tema nel 1952, invece nel 1957 sì (cfr. Discorso su tre questioni relative alla rianimazione). In quella occasione il Papa non disse affatto che le persone rianimate, ossia sottoposte a respirazione artificiale, sarebbero vive ma senz’anima. Infatti come avrebbe potuto sostenerlo, se affermava che «La tecnica di rianimazione, di cui si tratta qui, non contiene nulla di immorale»? Sarebbe contrario alla ragione e quindi immorale tentare di tenere in vita un essere umano senz’anima. Ma, volendo andare più a monte, è impossibile che Pio XII pensasse che potesse esistere un essere umano vivente senz’anima, perché, secondo il pensiero del Papa che ricalca la tradizione dottrinale cristiana, quando l’anima lascia il corpo (meglio sarebbe dire: quando il corpo abbandona l’anima) la persona muore. Infatti ecco cosa dice il Papa a tal proposito: «È responsabilità del medico, e in particolare dell'anestesista, dare una definizione chiara e precisa di "morte" e del "momento della morte" di un paziente che muore in stato di incoscienza. Per questo si può ripristinare il consueto concetto di completa e definitiva separazione tra anima e corpo».
Se invece la Scaraffia voleva dire che, secondo Pio XII, le persone rianimate sono certamente morte perché senz’anima, anche in questo caso ci troveremmo di fronte ad una interpretazione del pensiero del Papa non corretta. Infatti il Pontefice in un altro passaggio così si era espresso: «In caso di dubbio insolubile [riguardo al fatto che il paziente sottoposto a rianimazione sia vivo o morto] si può ricorrere anche alle presunzioni di diritto e di fatto. In genere ci si fermerà a quella della permanenza della vita, poiché è un diritto fondamentale ricevuto dal Creatore e di cui è necessario provare con certezza che è andato perduto». In dubio pro vita. Dunque nessuna equivalenza certa tra rianimazione e morte. Più avanti, applicando il principio del duplice effetto in caso di trattamento rianimatorio sproporzionato (il Papa ricorreva al duplice e ormai superato concetto di “ordinario-straordinario”), il Pontefice dichiarava: «anche quando comporta la cessazione della circolazione sanguigna, l'interruzione dei tentativi di rianimazione è soltanto indirettamente causa della cessazione della vita ed è necessario applicare in tal caso il principio del doppio effetto e quello del volontario in causa». Ciò a dimostrazione che, secondo il Papa, la rianimazione può tenere in vita una persona e non è sempre applicata ad un cadavere.
Stessa conclusione se andiamo a leggere una sua successiva affermazione: «considerazioni di ordine generale consentono di ritenere che la vita umana continui finché le sue funzioni vitali — contrariamente alla semplice vita degli organi — si manifestano spontaneamente o anche con l'ausilio di procedimenti artificiali», tra i quali possiamo includere la respirazione artificiale. Da ultimo, dopo aver letto per intero l’intervento della Scaraffia, torna ahinoi pertinente il tema della competenza specifica in campo bioetico di cui avevamo parlato solo qualche giorno fa.