Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
WIKILEAKS

Per Julian Assange l'estradizione può attendere

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Assange resta nel Regno Unito, almeno per ora. L'Alta Corte britannica gli ha riconosciuto il diritto di ricorrere in appello contro l'ordine di estradizione. 

Esteri 21_05_2024
Manifestazione a Londra per la liberazione di Assange (La Presse)

Una vittoria giudiziaria per Julian Assange apre un nuovo capitolo nella sua lunghissima vicenda. Il fondatore di Wikileaks, il sito in cui sono stati pubblicati i documenti segreti sull’Iraq, sull’Afghanistan, sulla diplomazia americana e su tante altre questioni scabrose di Stato, ora può fare appello contro l’ordine di estradizione. Lo ha deciso ieri, 20 maggio, l’Alta Corte del Regno Unito.

Se dovesse essere estradato negli Usa, Julian Assange, per le rivelazioni di Wikileaks, verrebbe sottoposto a processo, per 17 capi d’accusa di spionaggio e uno di uso improprio di dispositivi informatici. Rischia fino a 175 anni di carcere. Per evitare il processo, nel 2012 si era rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra doveva aveva vissuto per sette anni. Nel 2019, dopo la sua espulsione dalla sede diplomatica, il governo Johnson aveva disposto l’estradizione. L’attivista era finito nel carcere di Belmarsh, in attesa del trasferimento. Però, nel 2021, un tribunale britannico aveva negato l’estradizione sulla base del fondato sospetto che Assange avrebbe potuto suicidarsi. La sentenza è stata però ribaltata dall’Alta Corte.

In marzo, sempre l’Alta Corte aveva preso tempo per esaminare le garanzie fornite dal Dipartimento di Giustizia statunitense. Tre le richieste, sostanzialmente: che Assange non venga discriminato in quanto cittadino non americano (è cittadino australiano), che sia garantito il rispetto del Primo Emendamento (libertà di espressione) e che venga esclusa la pena di morte. Dopo oltre due mesi, i giudici britannici hanno deciso di consentire ad Assange un’altra possibilità di ricorrere in appello. A parte la pena di morte, che è stata tassativamente esclusa, le altre garanzie non sono risultate altrettanto convincenti. Respinte, invece, le richieste più ambiziose degli avvocati di Assange che chiedevano la sua scarcerazione. Il fondatore di Wikileaks resta invece in carcere, a Belmarsh.

Fra i sette anni chiuso nell’ambasciata dell’Ecuador e i cinque nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, Assange ha trascorso l’equivalente di 12 anni di prigionia. Secondo la moglie, Stella, la sua salute è deteriorata al punto da non potersi presentare in udienza.

Le argomentazioni di colpevolisti e innocentisti sono altrettanto solide. Per gli Stati Uniti, la colpa principale di Assange è quella di aver messo a rischio la vita di centinaia di persone. La pubblicazione integrale di documenti segreti, soprattutto quelli che riguardano le guerre in Iraq e in Afghanistan, ha esposto le identità anche di chi lavorava sotto copertura per gli Stati Uniti. Secondo uno dei capi d’accusa, poi, avrebbe indotto Bradley Manning a cedere i documenti segreti sull’Iraq. (Bradley ora ha cambiato sesso, si chiama Chelsea e il presidente Obama, alla fine del suo secondo mandato, ha ridotto la sua pena, permettendone la scarcerazione nel 2017). Il Dipartimento di Giustizia assicura, invece, che non verrà processato in relazione ai documenti che denunciavano crimini di guerra.

Secondo il team legale di Assange, invece, il loro cliente è vittima di una persecuzione politica, di una “vendetta di Stato”, perché ha esposto i suoi segreti. «Ha denunciato crimini di guerra reali», ha dichiarato lunedì la moglie al programma Today di BBC Radio 4. «Questo caso è la vendetta di uno Stato contro la trasparenza e la responsabilità».

Un appello contro l’ordine di estradizione permette di prendere tempo. E il tempo può cambiare molte cose. Il presidente Biden non ha escluso la possibilità di far cadere le accuse e di rimandare Assange in Australia, nel suo paese d’origine, come chiede il premier australiano Anthony Albanese. Ma, visti i precedenti, è più probabile che il presidente americano decida di farlo alla fine del suo mandato, ad elezioni già concluse. O all’inizio del prossimo, nel caso venga rieletto.



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