Per capire il Papa bisogna tornare a sant'Ignazio
Lo scopo ultimo, per la persona e per la Chiesa, è la gloria di Dio attraverso la salvezza delle anime. Tutto il resto è mezzo allo scopo, inclusa la morale. E' questa la chiave di interpretazione di quanto dice papa Francesco.
Dopo il botta e risposta tra Mario Palmaro e Riccardo Cascioli (leggi qui) su "Il fumo di Satana nella Chiesa", dedicato alla situazione della Chiesa e agli interventi di papa Francesco, si apre un dibattito per approfondire i diversi aspetti sollevati dai due interventi.
Giuliano Ferrara, «ateo devoto» geniale ma talora fazioso, e cattolici a disagio come Mario Palmaro – che ricordo sempre nelle preghiere per le gravi condizioni di salute – continuano nella loro critica a Papa Francesco, che ha preso spunto anche dall’omelia del Pontefice del 3 gennaio 2014 nella Chiesa del Gesù, che celebra la canonizzazione – avvenuta lo scorso dicembre – del primo sacerdote gesuita, san Pietro Favre (1506-1546).
Ritroviamo in questa omelia alcuni passaggi fondamentali dell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium»: noi siamo stati creati per rendere gloria a Dio; il modo di rendere gloria a Dio è salvare la nostra anima e insieme contribuire a salvarne altre, evangelizzare; dunque lo scopo per cui siamo su questa Terra è evangelizzare. Tutto il resto va visto in funzione di questo scopo duplice e anche unitario: rendere gloria a Dio e attirare le anime al Vangelo.
Qui si situa la chiave di comprensione di alcuni passaggi di Papa Francesco che generano talora disagio: lo scopo ultimo è costituito dalla gloria di Dio, perseguita tramite la salvezza delle anime. Tutto il resto è mezzo allo scopo: compresa la morale, sia individuale sia sociale. Non che la morale non sia importante: ma va sempre intesa come mezzo allo scopo di salvare le anime, così rendendo gloria a Dio. Non che la buona politica e le buone leggi non siano importanti: ma interessano alla Chiesa nella misura in cui servono a salvare le anime e rendere gloria a Dio.
Questa è la lettura che Papa Francesco fa del «Principio e fondamento» degli «Esercizi Spirituali» di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556): «L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l’uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato. Da questo segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo». Attenzione, ci dice Papa Francesco: «tutte» le realtà di questo mondo, comprese la politica, le leggi e le stesse norme morali.
Questo modo dei Gesuiti di concepire tutte le realtà in funzione del principio e fondamento è stato attaccato fino, si può dire, da subito come una forma di relativismo, che toglie verità oggettiva alla nozione di azione buona e cattiva. Il gesuita rischierebbe di negare che un’azione è buona o cattiva in sé, oggettivamente. Diventa buona o cattiva a seconda se serve un fine presentato come nobile, la gloria di Dio. Senonché, proseguono i critici dei Gesuiti, la gloria di Dio è facilmente scambiata per la gloria della Chiesa. In questo senso la tredicesima «regola per sentire nella Chiesa» degli «Esercizi Spirituali» è presentata come il trionfo di questo pio relativismo: «Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica» («Esercizi Spirituali», 365). Peggio ancora, la gloria della Chiesa sarebbe talora scambiata per la gloria della Compagnia di Gesù.
Si riconosce qui la critica dei Giansenisti ai Gesuiti, che fu indossata da Blaise Pascal (1623-1662), un personaggio complesso, intessuto di contraddizioni evidenziate con acume anche da un suo ammiratore come Augusto Del Noce (1910-1989). Pascal – che misconosce l’influsso del protestantesimo puritano sul nucleo originario giansenista – difende l’oggettività della norma morale contro la casuistica gesuita che, guardando sempre al caso concreto, diventerebbe soggettivista e relativista. A leggere Ferrara, che si appoggia anche su Gesuiti progressisti moderni come il cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012) o lo storico Michel de Certeau (1925-1986), i quali cambiano di segno la critica di Pascal rivendicando orgogliosamente il «relativismo» gesuita, sembra che Pascal difenda l’oggettività della legge naturale che la ragione può riconoscere, e sia dunque un precursore di Benedetto XVI, mentre i Gesuiti casuistici sarebbero precursori di Papa Francesco.
Ma c’è un equivoco. Pascal fonda l’oggettività della norma morale non sulla ragione ma sulla fede. Come ha spiegato Benedetto XVI all’udienza generale del 3 dicembre 2008, per Pascal l’espressione «natura umana» ha due significati. Con la natura umana originaria, creata buona da Dio, ben difficilmente dopo il peccato originale riusciamo a entrare in contatto. «Pascal ha parlato di una “seconda natura”, che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa “seconda natura” fa apparire il male come normale per l'uomo». Quando noi uomini decaduti cerchiamo il contatto con la «natura» in realtà incontriamo la «seconda natura» che ci spinge al male. Pertanto possiamo derivare la certezza della norma morale non dalla ragione che legge la natura ma solo dalla fede e dalla grazia.
Pascal – come ha mostrato uno studioso gesuita della storia della teologia morale acuto, ancorché talora discutibile, Paul Valadier – non ha più fiducia nella ragione umana di sant’Ignazio: ne ha meno. Non si fida della capacità della ragione, per quanto guidata dalla fede, di analizzare il caso singolo, e si affida – fideisticamente – alla norma che è «oggettiva» in quanto garantita da Gesù Cristo.
Sant’Ignazio assume dalla modernità nascente non il soggettivismo ma la questione della soggettività, non nega l’oggettività della norma ma ha fiducia che la ragione illuminata dalla fede sia in grado di applicarla all’infinita diversità dei casi singoli tenendo conto della specificità di ciascuno. E questo modo di applicare la norma morale per i Gesuiti è una forma di vigilanza rispetto al suo scopo, che è assicurare mediante la salvezza delle anime la gloria di Dio.
Per quanto Ferrara abbia dichiarato di non avere simpatia per l’uomo politico francese Charles Maurras (1868-1952), in qualche modo ne ripete l’itinerario. Maurras si scontrò con Pio XI (1857-1939), che pubblicò la sua condanna, perché non aveva capito a fondo neanche san Pio X (1835-1914), pur coprendolo di lodi per la sua difesa dei principi morali e della sana politica. Maurras non aveva capito che anche san Pio X lavorava per la salvezza delle anime, che era il fine, mentre la difesa dei buoni principi morali e politici era il mezzo. San Pio X non criticava il laicismo della Repubblica francese per far piacere a Maurras ma perché questo laicismo ostacolava la salvezza delle anime.
In modo analogo – certo, non identico – Ferrara non ha forse compreso sino in fondo la lezione del grande discorso ai Bernardins di Parigi del 12 settembre 2008, dove Benedetto XVI parla dei benedettini del Medioevo ma anche un po’ di se stesso: «Si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio». Certo, quei monaci – e così Benedetto XVI nel secolo XXI – crearono una cultura e salvarono dei valori. Ma questo non era il loro scopo. Era mezzo per lo scopo ultimo, «quaerere Deum».
Papa Francesco insiste tutti i giorni su questo scopo ultimo della missione della Chiesa: salvare le anime, salvarle in un mondo dove molti sembrano totalmente disinteressati al Vangelo. Tutto il resto non è negato, ma viene dopo. Le critiche, che possono generare disagio, ai «pelagiani» e ai «moralisti» vengono da qui. Il Papa critica chi scambia il mezzo, sia pure importantissimo, per il fine.
E il disagio cresce quando Papa Francesco manifesta la sua convinzione che il fine – la salvezza delle anime – richiede oggi un pontificato convincente e, perché no?, anche «popolare», capace di affascinare le grandi masse dei lontani che si tratta di riconquistare alla Chiesa. Per questo il pontificato va «messo in sicurezza» rispetto a controversie che sono invece delegate ai vescovi. Sul tema dell’omosessualità il Papa annuncia una parte della dottrina del «Catechismo della Chiesa Cattolica», quella secondo cui le persone omosessuali «devono essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione» (n. 2358). Questa formula c’è nel «Catechismo», e certo non l’ha inventata Papa Francesco. Quanto all’altra parte della dottrina del «Catechismo», secondo cui «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati» e «in nessun caso possono essere approvati» (n. 2357) né fondare riconoscimenti giuridici, il Papa – che peraltro non manca mai di rimandare al «Catechismo» – affida il giudizio sulle leggi e le politiche agli episcopati nazionali. «Non credo neppure – spiega il Papa nella «Evangelii gaudium» – che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori».
Le strategie non sono né vere né false: sono giuste o sbagliate. Tuttavia non si deve neppure avere fretta e liquidare questa strategia come già fallita sulla base di qualche episodio di malcostume episcopale in Italia. In Polonia, in Slovacchia, in Portogallo i vescovi sono intervenuti su leggi ispirate all’ideologia del gender con documenti molto puntuali. Papa Francesco vuole appunto questo. Il 2 dicembre 2013, ricevendo in visita ad limina i vescovi olandesi, molto criticati dai loro fedeli per il silenzio su eutanasia e ideologia di genere, il Papa li ha strigliati ricordando che i vescovi devono «essere presenti nel dibattito pubblico, in tutti gli ambiti nei quali è in causa l’uomo», citando «i dibattiti sulle grandi questioni sociali riguardanti per esempio la famiglia, il matrimonio, la fine della vita».
A Malta, dove si discutono leggi sulle unioni civili e le adozioni omosessuali, i vescovi avevano inizialmente pubblicato un comunicato molto timido, dove si nascondevano dietro il «Chi sono io per giudicare?» del Pontefice. Mons. Charles Scicluna, vescovo ausiliare di Malta – non un passante, ma la persona che fino al 2012 alla Congregazione per la dottrina della fede si è occupato come Promotore di giustizia dei casi dei preti pedofili – ha riferito di avere fatto visita al Papa, che si è detto «scioccato» (shocked) per gli sviluppi maltesi in tema di coppie omosessuali e ha esortato i vescovi a reazioni ben più incisive. Le posizioni durissime del Papa come arcivescovo di Buenos Aires sul «matrimonio» e le adozioni omosessuali risalgono a tre anni e qualche mese fa, 2010, non a «dieci anni fa» come scrive, sbagliando, Palmaro. La nozione pontificia di delega agli episcopati non è arrivata a Mazara del Vallo, dov’è vescovo mons. Mogavero, ma altrove in Europa – e negli Stati Uniti – funziona.
Sulle strategie, che non sono materia di fede, si può certamente discutere. Ma senza leggere il Papa attraverso Scalfari, e nella «Evangelii gaudium» ponendo attenzione anche al passaggio dove Francesco denuncia «un indebolimento del senso del peccato personale e sociale e un progressivo aumento del relativismo, che danno luogo ad un disorientamento generalizzato» (64). «Mentre la Chiesa insiste sull’esistenza di norme morali oggettive, valide per tutti» (ibid.), il relativismo secondo il Papa «finisce per portarci ad una tremenda superficialità al momento di impostare le questioni morali» (ibid.). Altro che apologia del relativismo e abolizione del peccato!