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L'ANALISI

Penalizzare il risparmio, una folle idea che sa di usura

Se investimenti e crescita si fondano sul risparmio accumulato, buon senso vorrebbe che questo fosse incoraggiato e tutelato. In un mondo con rendimenti negativi, causati dalle politiche monetarie ultra-espansive delle principali Banche Centrali, ci troviamo invece nella situazione paradossale in cui è il creditore che “paga” il debitore per concedergli un prestito, un contro-senso finanziario. Una vera e propria ”usura” ai danni del risparmiatore: fino a quando?
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Economia 17_10_2019

Il “raffreddamento globale” dei rendimenti dei prestiti obbligazionari verso e al di sotto dello zero, causato delle politiche monetarie eterodosse delle Banche Centrali, ci dà l’occasione di riflettere sulla funzione sociale e quindi sulla liceità morale del prestito ad interesse.

I risparmi vanno remunerati? È lecito ricevere un interesse su un prestito erogato? Un tema che ha appassionato teologi ed economisti nel corso dei secoli, dal divieto assoluto nell’antico Israele di fare prestito ad interesse nei confronti dei correligionari (cfr. Esodo 22,24: «se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all'indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse») alle condanne e ai dubbi dei teologi cristiani nel corso dei secoli; dal «nummus non parit nummos» di Aristotele (384 a.C.-322 a.C.) alla critica al «denaro che genera denaro» di Karl Marx (1818-1883).

Se il denaro viene visto esclusivamente come un mezzo di scambio, come “moneta sterile”, diviene infatti difficile riconoscere la liceità di un interesse a remunerazione del prestito. Eppure nel Vangelo, nella celebre “parabola dei talenti” (cfr. Matteo, 25,25-27), il servo malvagio e infingardo che per paura seppellisce il talento ricevuto viene apostrofato dal suo padrone al suo ritorno con il rimprovero: «Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse». Il “talento” viene presentato da Nostro Signore come una cosa buona, da investire e far fruttificare, e semmai ne viene rimproverata la “tesaurizzazione”, non remunerata e non feconda.

Con lo sviluppo del commercio e dell’attività economica nel corso del Medioevo, il denaro cessa progressivamente dall’essere “sterile pecunia”, un semplice mezzo di scambio, divenendo sempre più “capitale”, che può generare ricchezza incrementale se affidato a uomini capaci e industriosi come i mercanti.

Contro il mito diffuso dal pensatore tedesco Max Weber (1864-1920), che individua nella riforma calvinista il seme dello sviluppo del capitalismo moderno, la scienza economica affonda invece le proprie radici nella riflessione giuridica e teologico-morale nel basso Medioevo, ben prima della pseudo-riforma protestante. Pensiamo alla creazione nella seconda metà del XV° secolo dei Monti di Pietà, dove l’accumulazione di capitale, tipica di un’istituzione bancaria, si accompagna ad un’opera pia di beneficenza, con l’erogazione di crediti ai bisognosi a condizione di favore: un’invenzione geniale che seppe interpretare con intelligente carità le esigenze dei tempi nuovi. Ad opera dei francescani.

Dei francescani? Per quanto ciò strida con la vulgata contemporanea, furono proprio i seguaci del poverello d’Assisi a cogliere per primi la giustificazione morale di una legittima retribuzione di un prestito. Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298) e quindi, in pieno Quattrocento, San Bernardino da Siena (1380-1444) e Sant’Antonino da Firenze (1389-1459) iniziarono infatti a riconoscere che il prestito potesse essere remunerato, a certe condizioni, a titolo di risarcimento per le occasioni perse e il danno sostenuto da parte del creditore, secondo le categorie del diritto romano di “lucrum cessans” e di ”damnum emergens”. A vantaggio soprattutto dei bisognosi, che altrimenti non avrebbero avuto altra possibilità che quella di rivolgersi agli usurai.

Si inizia così a riconoscere che il capitale è potenzialmente fruttifero e quindi chi lo cede temporaneamente a terzi ha buon diritto a vedersi riconosciuto un interesse per compensare il suo “danno emergente”, legato alla rinuncia a disporre del denaro per un certo periodo di tempo col rischio di non ritornarne in possesso a scadenza, e al “lucro cessante”, in considerazione della perdita delle possibilità alternative di impiego del capitale per la durata del prestito. Da “turpe lucrum”, praticato solo da chi era indifferente alle condanne all’usura da parte di moralisti e canonisti, il prestito ad interesse diviene così un’attività funzionale alla crescita economica, in cui le esigenze di ottenere una remunerazione nel mettere a disposizione di altri i frutti del proprio risparmio si incrociano con le necessità di mercanti e imprenditori di finanziare i propri commerci. L’emersione di tale attività e l’ampliamento della base dei potenziali prestatori ha sicuramente contribuito a far scendere i tassi di interesse, a tutto vantaggio di chi abbisognava di prestiti, in un esempio positivo di “eterogenesi dei fini”.

L’ ”usura” un po’ per volta inizia così ad individuare solamente quei prestiti in cui il creditore pretende tassi molto elevati rispetto alle consuetudini del posto e del momento, approfittando di una situazione di debolezza del debitore per ottenere un “lucrum immoderatum” (cfr. Codice di diritto canonico del 1917, canone 1543); mantiene la stessa accezione ai giorni nostri, dove viene definito per legge un “tasso di usura” che non può mai essere superato, sotto sanzione penale, da chi presta denaro a terzi.

Il rischio di non ritornare in possesso, in tutto o in parte e nei tempi pattuiti, del denaro concesso in prestito trova così una remunerazione, più o meno elevata a seconda del “merito creditizio” del debitore, del tempo che dura il prestito, della quantità di risparmio in circolazione rispetto alle esigenze finanziarie dell’attività economica in un dato momento.

L’interesse diviene quindi il “prezzo del tempo e del rischio” di un “capitale” potenzialmente fecondo, con un’indubbia utilità sociale a vantaggio del bene comune, ottenendo così una sua giustificazione morale. Un “uovo domani” vale meno di un “uovo oggi”: se i tassi fossero nulli non ci sarebbe differenza - come se il tempo non valesse nulla -  e se fossero addirittura negativi come accade ai nostri giorni, un “uovo oggi” verrebbe a valere meno di un “uovo domani” - come se il tempo fosse divenuto un dis-valore -: un controsenso logico prima che finanziario.

Con la repressione dei rendimenti in territorio negativo operata dalle Banche Centrali, il risparmio viene scoraggiato a vantaggio del consumo; si trasferisce surrettiziamente ricchezza dai creditori ai debitori, si incentivano l’azzardo morale e i cattivi investimenti, minando così alle basi il processo di accumulazione di capitale che fa aumentare la produttività del lavoro, spinge la crescita e favorisce il benessere generale.

Un tema cruciale e che tocca la vita di tutti noi nella quotidianità, vuoi come investitori che cercano un giusto reddito per i sudati risparmi vuoi come soggetti che abbisognano di finanziamenti per sostenere consumi o investimenti.
Ci torneremo su, con alcune riflessioni sul crescente interventismo da parte delle Banche Centrali nell’alterare “politicamente” i tassi di interesse e quindi il valore del denaro.

I “talenti”, come tutti i doni del buon Dio, vanno fatti fruttificare, non contraffatti.