Pedofilia e stupri: fuoco sui caschi blu
L’11 marzo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha disposto il rimpatrio di tutte le unità di caschi blu di cui fanno parte dei militari accusati di abusi sessuali. È la prima volta che il Consiglio di sicurezza affronta il problema delle violenze sessuali compiute dal personale impegnato in missioni di pace. È da anni che dei peacekeeper vengono accusati di abusi sessuali su donne e bambine. Solo nel 2015 i casi sono stati 69.
L’11 marzo il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha disposto il rimpatrio di tutte le unità di caschi blu di cui fanno parte dei militari accusati di abusi sessuali. È la prima volta che il Consiglio di sicurezza affronta il problema delle violenze sessuali compiute dal personale impegnato in missioni di pace.
Indagini e processi spetterebbero ai Paesi di origine dei caschi blu. Ma, di fronte al persistere del fenomeno, finalmente il Consiglio di Sicurezza si è deciso a intervenire traducendo in risoluzione una richiesta già formulata nei mesi scorsi dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e chiedendo in più che vengano sostituiti anche i contigenti a cui appartengono dei dipendenti sospettati di abusi sessuali, se risulta che le indagini non siano state svolte appropriatamente.
È da anni che dei peacekeeper vengono accusati di abusi sessuali su donne e bambine. Nel 2014 in dieci missioni, sulle 16 operative, sono stati denunciati 52 casi di stupro di bambini e altre violenze sessuali commessi da soldati, agenti di polizia, dipendenti civili e volontari. Nel 2015 il numero è salito a 69 (e si tratta solo dei casi venuti alla luce). Una delle missioni sotto inchiesta da mesi è la Minusca, quasi 12.000 unità tra militari, agenti di polizia e personale civile, incaricata di riportare l’ordine nella Repubblica Centrafricana, un Paese in guerra dalla fine del 2012. Dopo lo stupro di una bambina di soli 12 anni, violentata lo scorso agosto durante una operazione affidata a peacekeeper inviati dal Rwanda e dal Camerun, si sono scoperti casi di violenza sessuale su bambini di strada.
I funzionari dell’Onu per di più non sono intervenuti pur sapendo che dei militari della missione francese Sangaris, anch’essa impegnata nella pacificazione del Paese, pretendevano prestazioni sessuali da bambini in cambio di cibo e di denaro. Lo scorso dicembre una commissione indipendente ha definito la risposta dell’Onu alle denunce di abusi nella Repubblica Centrafricana «seriamente inadeguata» e un «clamoroso fallimento». Il Consiglio di sicurezza ha approvato la risoluzione con 14 voti favorevoli su 15. L’Egitto si è astenuto dopo essersi visto respingere un emendamento dell’ultima ora che, secondo l’ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu, avrebbe stravolto la risoluzione e che tuttavia era stato approvato da quattro Paesi. Alcuni governi hanno espresso la preoccupazione che dei soldati innocenti possano venir puniti ingiustamente.
La notizia degli abusi sessuali commessi dai caschi blu ha seguito di poche ore un’altra sconvolgente notizia. Riguarda il Sud Sudan, teatro dal 2013 di una guerra civile tra le più cruente, al punto da far temere un nuovo genocidio. Il conflitto, originato da uno scontro di potere ai vertici dello Stato tra le due principali etnie, i Dinka e i Nuer, ha già provocato decine di migliaia di morti e oltre due milioni di sfollati e profughi. Sia i militari regolari e le milizie schierate con il governo sia le milizie ribelli sono accusati di violenze sulla popolazione civile: saccheggi, stupri, torture, bambini bruciati vivi, persone costrette al cannibalismo, forzate a cibarsi della carne di parenti fatti a pezzi e squartati e a berne il sangue, bambini arruolati a forza.
Un’indagine condotta dall’Onu rivela adesso che nello Unity, uno degli Stati della Federazione sud-sudanese in cui si combatte più ferocemente, nel 2014 circa 1.300 donne sono state violentate da militari governativi e arruolati nelle milizie alleate con il governo, responsabili inoltre di razzie di bestiame e di saccheggi. Il rapporto che raccoglie i risultati dell’indagine descrive casi di stupro di gruppo e altre atrocità, racconti agghiaccianti come quello di una donna costretta ad assistere allo stupro della figlia di 15 anni violentata da dieci soldati che prima ne avevano ucciso il marito.
L’aspetto più sconvolgente è che le violenze sono state commesse con il consenso delle autorità militari, grazie a un accordo in base al quale stuprare e rapire donne e bambine faceva parte della retribuzione dei combattenti, una sorta di integrazione del loro salario. «Come ricompensa», si legge nel rapporto dell’Onu, «alle milizie alleate dell’esercito sud sudanese è stato concesso di violentare delle donne». L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra’as Al Hssein, ha dichiarato che, per entità e modalità, le violenze sessuali commesse in Sud Sudan costituiscono una delle più spaventose e orribili violazioni dei diritti umani.
Quasi contemporaneamente a quello dell’Onu, Amnesty International pubblicava un proprio rapporto contenente un’altra terribile accusa. Dei militari governativi hanno inflitto una lunga, atroce agonia a più di 60 uomini e ragazzi facendoli morire soffocati in un container. Amnesty International ha intervistato 42 testimoni, 23 dei quali sostengono di aver visto i militari costringere a forza i poveretti a entrare nel container e di aver visto poi portare via i cadaveri che sono stati sepolti in una fossa comune. I famigliari delle vittime hanno spiegato che si trattava di guardiani di bestiame, commercianti e studenti.