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IL NUOVO LIBRO DELLA BUSSOLA

Pedalando per il Cielo. Fede vittorie e sconfitte di un campione

"Gianbattista Baronchelli era una figura tanto mitica da essere incorporea. Con tutte quelle vittorie al Giro d'Italia, GiBì per me non poteva mai scendere dalla bici. Eppure, quando lo incontrai, capii subito che il campione di ciclismo aveva ben di più da raccontare: compresi che la sua avventura umana era legata a filo doppio ad un cammino di conversione alla fede in Dio, dove il vero Traguardo da raggiungere non sta in terra, ma in Cielo". Pubblichiamo l'introduzione del nuovo libro-intervista della Nuova Bussola Quotidiana: "Pedalando per il Cielo. Fede vittorie e sconfitte di un campione".

Cultura 03_08_2020

Pubblichiamo l'introduzione del nuovo libro-intervista di Tommaso Scandroglio al campione di ciclismo, Giambattista Baronchelli per la Collana "Sapere per Capire" della Nuova Bussola Quotidiana - Titolo: "Pedalando per il Cielo. Fede vittorie e sconfitte di un campione".

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Incontrai Gianbattista Baronchelli la prima volta il 10 settembre del 2017 in occasione di una Giornata della Bussola, giornata di relazioni, testimonianze e interviste. GiBì – questo il suo nome di battaglia - era allora e lo è tuttora un assiduo lettore della Nuova Bussola Quotidiana, e aveva espresso il desiderio di incontrare quel tizio che di tanto in tanto imbrattava di inchiostro digitale le pagine del quotidiano online da lui letto.

Ne fui molto onorato, perché negli anni in cui Baronchelli spingeva sui pedali per tagliare molti prestigiosi traguardi, il sottoscritto spingeva anche lui sui pedali, ma da bimbetto insieme agli amici cercando di imitare i grandi del ciclismo in quelle volate che ti portavano da scuola a casa o da casa al campetto di calcio. Allora, soprattutto durante le vacanze estive passate nella casa di campagna, erano tre i nomi sulla bocca di noi ragazzini che gridavamo in sella alle nostre saltafoss, antesignane della BMX e poi delle mountain-bike: Moser, Saronni e Baronchelli. Rubavamo non solo le loro famose identità per sbarazzarci dei nostri anonimi cognomi, ma anche le loro doti sportive. E, magicamente, funzionava: avevi più energie in quelle gambette scheletriche, più fiato nei polmoni arroventati dal caldo agostano, più coraggio per frenare proprio all’ultimo secondo in quella curva a gomito che era pure sterrata (le sbucciature sulle ginocchia erano medaglie sul petto conferite a motivo dell’audacia sportiva e dello sprezzo del pericolo).

Dunque Baronchelli era per me, fino a quel 10 settembre, una figura tanto mitica da essere incorporea. Il mito non è fatto di carne ed ossa, bensì solo di successi, di sconfitte a cui seguono rivincite, di sofferenze e di passioni. Il mito sportivo non ha vita privata perché averla sarebbe volgare, ossia aspetto ordinario che appartiene solo al volgo, non deve pagare le bollette o andare al supermercato, ma vive solo e costantemente della sua arte sportiva, esiste solo in quanto stacca gli avversari a 10 km dal traguardo, scollina un passo di montagna ancora innevato, sfreccia lungo una discesa dal pendio letale. GiBì per me non poteva mai scendere dalla bici. E così ti pare che tutto l’immaginario che nasce dalle gesta di un campione come GiBì non possa mai venire racchiuso in una persona fisica, ma ecceda da essa, strabordi da ogni parte. Perciò il primo sentimento che colse il sottoscritto quando incontrò GiBì fu stupore: «Allora esiste davvero!», mi venne da pensare in modo quasi irrazionale. Il mito si era incarnato davanti a me e la stretta di mano che ci scambiammo ne fu la prova tangibile.

Tra una battuta e l’altra osservai con attenzione questo signore di 64 anni: alto, asciutto, un fisico che mentalmente definii “nervoso”, ossia reattivo. Dava l’impressione di solidità, di forza e allo stesso tempo di elasticità. Lo guardai non solo con attenzione, ma anche con stupore: quelle gambe avevano minacciato da vicino lo strapotere di Eddy Merckx nel Giro d’Italia del ’74; quelle braccia si erano levate due volte vittoriose in altrettanti Giri di Lombardia; quegli occhi avevano guardato il pubblico sottostante quando salì sul podio più alto in cinque tappe del Giro d’Italia. Tutte queste vittorie e molte, molte altre erano come se fossero incise nell’aspetto e nel viso di Baronchelli – un viso che si apriva con naturalezza ad ampi e sinceri sorrisi sotto un paio di occhi vivaci e profondi – come se sopravvivessero in lui a dispetto degli anni. Quasi che il Tista, diminutivo di Gianbattista usato inizialmente in famiglia e poi tra gli amici, avesse tagliato il traguardo un attimo prima di incontrarci.

Venne da chiedermi se Baronchelli aveva ricevuto in dote dal Cielo questo fisico proprio adatto al ciclismo – almeno al ciclismo degli anni Settanta-Ottanta – oppure se, al contrario, era stato il ciclismo a imprimere nelle sue membra tale aspetto che, nonostante da molti anni non gareggiasse più, pareva ancora consono ai pedali di una bici. Forse, così mi dissi, entrambe le cose. Come un matrimonio in cui lo sposo GiBì è proprio adatto alla sua sposa, la bicicletta, e questa negli anni lo ricambia e lo cambia, lo fa diventare sempre più adatto a lei.

L’aspetto fisico di Baronchelli confermava allora ciò che, un paio di anni dopo, mi risultò evidente allorché concordammo l’intervista che il lettore avrà modo di leggere nelle pagine successive: GiBì nasce ciclista, lo è tuttora e da ciclista tenterà la scalata al Cielo. Tista pensa, parla e decide non solo da sportivo agonista, ma soprattutto da ciclista professionista. Questo a conferma che il ciclismo fu per lui non un lavoro, ma un modo di essere, una vera e propria vocazione che, come mi raccontò poi lui stesso, veniva da Dio, da Colui che in altezza, in larghezza ed in profondità non ha eguali. Gianbattista Baronchelli non poteva che fare, anzi, essere un ciclista e un ciclista professionista, non poteva che essere GiBì, nome di battaglia sulle due ruote. Poi, come tutti i professionisti, arriva il giorno in cui devi appendere la bicicletta al chiodo, ma il ciclista GiBì su quel chiodo non ci è mai finito. La tenacia, la grinta, la capacità di sopportazione del dolore, la voglia di vincere e di non arrendersi mai, lo spirito di gruppo... Tista aveva trasferito tutto questo dai circuiti del Giro d’Italia e del Tour de France a quelli della vita di tutti i giorni.

Torniamo a quel primo incontro. Ci parlammo, dunque, e le chiacchiere, davvero brevi, non poterono che cadere sulla sua vita “a due ruote”. Intuii già allora, seppur in modo assai confuso, che il campione Baronchelli celasse anche una biografia non sportiva altrettanto interessante. L’intuizione trovava conforto in una intervista che avevo letto proprio sulla Bussola nel 2014, in cui Tista si metteva un poco a nudo, rivelando un percorso di maturazione e conversione nella fede insospettabile.

Da quel settembre del 2017 passarono due anni. Un giorno di maggio del 2019 il mio smartphone squillò. Era Riccardo Cascioli, direttore della Bussola: «Baronchelli vuole scrivere un libro con te». La mia risposta fu: «Io?! Non so nulla di ciclismo!». Il direttore grugnì qualcosa all’altro capo del telefono e mi ritrovai dopo qualche settimana a Monza, nel suo ufficio insieme a Baronchelli. L’idea era semplice, ma non altrettanto semplice da realizzare: GiBì voleva raccontare la sua avventura umana, la quale andava ben oltre la figura del campione, un’avventura legata a filo doppio ad un cammino di conversione alla fede in Dio.

Fu la prima occasione per conoscere GiBì più da vicino. In quella prima chiacchierata e nelle altre che seguirono, la figura del Baronchelli campione scivolava sempre più in secondo piano ed emergeva l’uomo Tista, assai simile per “vizi e virtù” – potremmo così dire – al Baronchelli campione, ma con aspetti ovviamente inediti. Nei primi scambi di parole compresi immediatamente che imbrigliare la vivacità d’animo di GiBì sarebbe stato come mettere un’aquila in una gabbia da canarino. In seguito provai ad inviargli alcune domande, nella speranza che servissero da stradario per arrivare alla meta, ma, a differenza di quando gareggiava, GiBì non rispettò il tracciato che gli avevo proposto e fu una fortuna. Infatti Tista dà il meglio di sé quando è spontaneo, perché, come lui stesso ammise successivamente nell’intervista, lui è un impulsivo. Deve correre con il vento tra i capelli (mai una frase fu più metaforica di questa, dato che Baronchelli oggi è completamente calvo). Dunque le mie domande scritte sarebbero state d’impiccio a quel flusso della coscienza che lo scrivente ha tentato di riprodurre in queste pagine.

La prima domanda che comunque gli feci di getto quando ci incontrammo a Monza fu: «Perché un libro su Baronchelli?». Solo l’anno prima era stato dato alle stampe un volume di Gian Carlo Iannella interamente dedicato a Baronchelli: GiBì Baronchelli. Dodici secondi. Perché dunque un secondo? La risposta emerse come un puzzle in quel secondo incontro e negli altri successivi. Il libro di Iannella metteva in evidenza soprattutto la figura dello sportivo. Ma oltre al campione c’è di più. C’è la storia di una conversione in età matura, quasi che per buonissima parte della sua vita Tista avesse corso dando le spalle al “traguardo”, allontanandosi da questo invece di avvicinarsi. Questa nuova vita erompeva in lui in modo incontrollabile. E così, quando lo chiamavano come ospite da qualche parte per parlare della sua carriera e per promuovere il suo libro, ecco che trovava sempre lo spazio per parlare della fede, della prova vissuta con speranza cristiana, di Dio. La gioia e la forza della scoperta del Signore tracimavano in lui e dovevano diventare parola parlata, ma ora anche scritta. Dunque questo libro nasce da una incontenibile gioia cristiana, da un'esperienza importante di vita spirituale.

Le pagine che seguiranno non hanno una funzione, direbbero i colti, catartica, ossia uno scopo purificatorio, liberatorio. Tista è un uomo in lotta, ma sereno, che si muove nelle difficoltà della vita come tutti noi, ma animato da profonda speranza cristiana. Dunque ha voluto mettere per iscritto i suoi ricordi, le sue riflessioni, la sua testimonianza, non con intento terapeutico – e nemmeno meramente didattico – bensì perché fa parte della sua nuova missione, del suo sforzo evangelizzatore: quello di incoraggiare gli altri a guardare Gesù, magari anche parlando della propria esperienza. In sintesi, GiBì con questo libro ci ha voluto solo dire una cosa molto semplice: l’unico grande motivo per cui vale la pena spendersi è tentare di raggiungere il Cielo e far sì che divenga il nostro Traguardo con la T maiuscola. Per esso, bisogna essere disposti a dare anche la propria vita.