Peccato o fragilità? La rivoluzione linguistica nella Chiesa
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“Peccato”, termine ormai in panchina, evoca un plesso dottrinale di principi, nonchè un’offesa a Dio, quindi rimanda ad un piano trascendente. “Fragilità” invece abbassa la temperatura morale rispetto al concetto di “peccato”. E così vale per dottrina/pastorale, Creato/ambiente, Giustizia/misericordia. Viaggio nella rivoluzione linguistica della Chiesa.
Ogni rivoluzione porta con sé anche una rivoluzione linguistica perché cancellare una certa realtà per sostituirla con una nuova comporta, in parallelo, cancellare tutti quei termini che definiscono la realtà presente per far posto ad un nuovo vocabolario capace di descrivere il mondo nuovo che, per definizione, è sempre migliore di quello vecchio. Anche le rivoluzioni in casa cattolica che investono fede e morale non sfuggono a questa regola lessicale. Qualche esempio.
Prendiamo innanzitutto la parola “peccato” che ha subìto un severo ostracismo a favore del termine “fragilità”. “Peccato”, termine ormai in panchina, evoca un plesso dottrinale di principi, nonchè un’offesa a Dio, quindi rimanda ad un piano trascendente, una volontarietà espressa dalla persona e dunque una sua responsabilità. Ne consegue che, nell’immaginario collettivo, associato a “peccato” abbiamo concetti come comandamento, errore, ingiustizia, colpa, riparazione, pena. “Fragilità” abbassa la temperatura morale rispetto al concetto di “peccato”. Infatti tale lemma fa più riferimento all’essere –. “E’ persona fragile” – che all’azione, alle condotte. Ma la morale riguarda soprattutto l’agire e dunque le regole di comportamento. Ne consegue che la fragilità è abile a liberarsi dalle strettoie della morale.
E poi la fragilità, sempre nella coscienza collettiva e sotto la prospettiva psicologica, può essere connaturata alla persona, dunque inevitabile e quindi priva di colpa. Inoltre – ed ora invece ci muoviamo sotto il profilo teologico – questo termine pare evocare, in senso protestante, quella condizione di intrinseca e irricuperabile debolezza della nostra natura umana ferita dal peccato originale. Ma anche in questo caso la fragilità è insopprimibile, non debellabile. Dunque non può suscitare nessuna condanna e, all’opposto, muove subito alla giustificazione della stessa e perciò alla solidarietà.
Va da sé poi che il concetto di fragilità esclude dal proprio orizzonte Dio, perché la fragilità non offende nessuno, tantomeno il Creatore, il quale entrerà in gioco semmai per sanare il fragile nella confessione, luogo che è diventato solo un’infermeria e non anche un tribunale dove ammettere le proprie colpe. La fragilità invece elimina questo aspetto e presenta il peccatore solo come un ferito che è tale senza sua colpa. Doveroso dunque assassinare il peccato per legittima difesa del quieto vivere.
Un altro termine che è andato in pensione è “dottrina”. Al suo posto troviamo “pastorale”. Non esiste più un plesso di norme e principi di fede e morale che guida il credente nella prassi, che dovrebbe essere declinato dai pastori nell’azione evangelizzatrice. Questo rapporto gerarchico in cui la dottrina è al vertice e la pastorale è alla base è stato invertito.. Anzi, ad essere più corretti, potremmo dire che la pastorale coincide con la dottrina. E’ il contingente, il particolare che rivela la norma altrettanto contingente e particolare. Non c’è posto per la dottrina in questa idea di Chiesa, ma solo per un ponderoso manuale delle esperienze. Regole universali non esistono più: è la casistica a dettar legge. Le uniche regole universali sono principi generalissimi, buoni per tutte le stagioni, che con millanteria vengono desunti da un volutamente imprecisato spirito del Vangelo: l’apertura agli altri in specie agli ultimi, meglio se poveri; il dialogo; la non discriminazione, l’inclusività; il rispetto dell’ambiente; la solidarietà; etc.
Fermiamoci proprio sul sostantivo “ambiente” che ha mandato in soffitta “creato”. Segno, ancora una volta, che il braccio orizzontale della croce, orizzontale come la terra, deve vincere su quello verticale, che indica il Cielo. Dunque deve prevalere un visione immanentistica e non trascendente perché l’ambiente non ha bisogno di Dio per esistere, invece il creato sì. C’è da aggiungere che l’ambiente, in seno ad un ambiente religioso, diventa presto culto, seppur mascherato, di Gea, dea della Terra. La gerarchia dell’ordine naturale voluto da Dio viene rivoluzionato e così la persona diventa solo un animale umano, ma sempre animale è, il quale è subordinato, per conquistarsi il Cielo, ad onorare la Terra, ossia piante, animali e pure ghiacciai.
Colpita da oblio anche la parola “giustizia”, che è stata licenziata dal vocabolario cattolico a favore del termine “misericordia”. O meglio, il termine “giustizia” trova ancora una sua dignità solo se declinata come “giustizia sociale”, ossia solo se spesa in riferimento ai poveri, agli emarginati, ai malati, agli immigrati, etc. Ma quando spiccheremo il volo verso il Cielo, la giustizia rimarrà a terra e nell’Aldilà ci troveremo faccia a faccia solo con una misericordia divina che, nelle intenzioni di alcuni teologi, è così generosa che non guarda in faccia a nessuno e a niente, nemmeno ai peccati. E dunque dopo la fiducia cieca in Dio, ora dobbiamo predicare anche una misericordia cieca, cieca di fronte a meriti e a demeriti. Riguardo a questi ultimi, regnerà sovrana la forza del perdono che, dopo così tante e insistenti operazioni di chirurgia plastica teologica, sarà irriconoscibile tanto che verrà chiamato “condono”.
Sbianchettata anche la parola “gerarchia” perché il nuovo che avanza si chiama sinodo (che tanto nuovo non è). Il camminare insieme senza meta, inseguendo con tenacia come unico scopo lo stesso camminare insieme, è il sinodo, l’inedito organo di governo della Chiesa che, privo idealmente di gerarchia, produce una marcia dei fedeli inevitabilmente in ordine sparso. Il caso tedesco è in tal senso paradigmatico. In realtà è tutta una voluta finzione: storicamente chi ha sempre parlato di collegialità, di democrazia, di condivisione, lo ha fatto perché strumentalmente utile al proprio autoritarismo. Dietro lo scudo della sinodalità si nascondono i soliti quattro che non vogliono mollare il potere. La massa è facilmente pilotabile, soprattutto se nella dinamica sinodale si fa partecipe solo chi la pensa come chi sta nella stanza dei bottoni: il consenso viene costruito ad arte e così irrobustisce la forza di pochi. Se poi il popolo di Dio non si orienta come vogliono lor signori i controllori, basterà non ascoltarlo. Questo processo che vede la sinodalità usata surrettiziamente per consolidare il potere è antitetico al principio gerarchico, così come inteso in senso cattolico. Sia perché la gerarchia non prevede l’annientamento dei poteri intermedi a favore del potere di uno solo, sia perché la gerarchia cattolica significa servizio, sia perché la gerarchia degli uomini di Chiesa è sempre subordinata alla gerarchia celeste e dunque alla verità.
Un’ultima coppia di lemmi, tra gli infiniti che si possono citare: fede e dubbio. La fede è stata rottamata perché nel Catechismo della Chiesa Cattolica si legge la seguente "bestemmia": “la fede è certa, più certa di ogni conoscenza umana, perché si fonda sulla Parola stessa di Dio, il quale non può mentire” (n. 157. Notare il corsivo, che non è nostro). Oggi invece viene insegnata la fede nel dubbio: non risposte ma domande, non punti esclamativi ma interrogativi, non luce ma oscurità. Dio non si è rivelato, ma lo possiamo vedere solo dal buco della serratura della nostra personalissima coscienza e si muove pure in una stanza immersa nel buio. La verità appare rigida, non malleabile, così scomoda perché non ergonomica per le delicate anime dei contemporanei tanto versate al compromesso. Ecco allora il dialogo fine a se stesso, la celebrazione delle crisi di fede, la dottrina liquida, anzi gassosa, la priorità dei processi sul risultato, del cammino sulla meta, della ricerca sugli esiti. L’unica liturgia ammessa è quella che celebra l’ambiguo – e ci stupiamo della benedizione ecclesiale dell’omosessualità? – a danno dell’inequivocabile, che incensa il problema e non la soluzione, il relativo e non l’assoluto, come gli assoluti morali. Questa è l’unica certezza da coltivare: che non si hanno più certezze.