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GIOCHI DI POTERE

Partiti sempre più rissosi, servono forme nuove

Sia i partiti vecchi che quelli nuovi registrano un elevato tasso di litigiosità interna. Nei 5 Stelle, Fico manifesta insofferenza per l’appiattimento sulla linea della Lega e tiene banco lo scontro Di Battista-Di Maio. C’è poi il Carroccio con le tensioni tra Giorgetti e Borghi, Forza Italia con quelle tra Toti e Carfagna, nonché il Pd, con le sue solite lacerazioni.  

Politica 25_06_2019

Il crescente assenteismo elettorale ha mille spiegazioni, ma senz’altro tra queste c’è la progressiva disaffezione degli italiani nei confronti dei partiti. Sia quelli vecchi, con radici ideologiche apparentemente solide, sia quelli più recenti mostrano un accentuato deficit democratico e registrano un elevato tasso di litigiosità interna. L’evoluzione della dialettica politica delle ultime settimane ne è la riprova.

Partiamo dai Cinque Stelle, che propugnano il superamento del Parlamento e l’affermazione della democrazia diretta, basata sul teorema dell’orizzontalità partecipativa (“uno vale uno”). Il Movimento ufficialmente si presenta come un monolite, con una leadership, quella di Luigi Di Maio, riconfermata anche all’indomani del tonfo registrato alle elezioni europee. In realtà non è affatto immune dalle trame correntizie.

Da tempo il presidente della Camera, Roberto Fico, manifesta insofferenza verso l’appiattimento pentastellato sulla linea della Lega. Più ancora di lui Alessandro Di Battista, il cui libro appena dato alle stampe ha incendiato il dibattito interno e, soprattutto, ha acuito le distanze tra lui e lo stesso Di Maio. Quest’ultimo non ne può più e lo ha scritto in un post ufficiale sul blog delle Stelle: «Non mi interessa se in buona fede o in mala fede, ma se qualcuno in questa fase destabilizza il Movimento con dichiarazioni, eventi, libri, destabilizza anche la capacità del Movimento di orientare le scelte di Governo. Qui stiamo lavorando per il Paese, e questo non lo posso permettere. Non è una partita a Risiko».

Di Battista, però, non intende rinunciare alla sua battaglia interna, che è poi, neppure troppo velatamente, una scalata alla poltrona di capo politico attualmente occupata da Di Maio. A lui non sta bene l’alleanza con la Lega, che invece Di Maio ritiene l’unica possibile; lui vorrebbe rivedere l’agenda di legislatura e spuntare una per una le armi della propaganda leghista, non ultima la flat tax, per la quale chiede chiaro e tondo a Matteo Salvini dove intenda recuperare le risorse necessarie.

Ma le stilettate sono anche contro i suoi compagni pentastellati, che avrebbero smesso di stare in mezzo alla gente per portare avanti le idee del Movimento e si sarebbero impigriti nelle poltrone ministeriali e parlamentari. Accuse pesanti che hanno un obiettivo preciso: Di Maio. Il dualismo tra i due è destinato ad accentuarsi e a provocare altre crepe in un movimento che continua a perdere pezzi. Nei giorni scorsi anche la senatrice Paola Nugnes se n’è andata nel Gruppo misto, mettendo in fibrillazione l’esecutivo, che a Palazzo Madama ha numeri risicati.

La situazione tra i Cinque Stelle è esplosiva, ma anche nelle file leghiste si registrano mugugni. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, ha demolito l’ipotesi di minibot per pagare i debiti delle pubbliche amministrazioni, definendo quegli strumenti «inverosimili» e aggiungendo un attacco al suo collega di partito, Claudio Borghi, presidente della Commissione bilancio della Camera: «C’è ancora qualcuno che crede a Borghi?». Ma quest’ultimo, chiamato direttamente in causa, non arretra: «Era una battuta, Giorgetti scherza sempre. Vero è che i minibot non sono mai stati fatti. È una cosa che abbiamo discusso tante volte, anche di recente, Salvini è d’accordo. Non c’è alcun incidente con Giorgetti», assicura Borghi, che insiste sulla versione della battuta scherzosa.

Se, dunque, la leadership salviniana dentro la Lega non è in discussione, a differenza di quella di Di Maio, criticato anche dalla base pentastellata nei forum di discussione, è comunque vero che il Capitano fa sempre più fatica a placare alcune tensioni interne, anche con i governatori del Nord, che premono sull’autonomia.

Forza Italia, dopo aver perso alle europee del mese scorso circa 6 punti percentuali (dal 14% delle politiche del 2018 all’8%), si sta ristrutturando e pensa, come è ovvio, al dopo-Berlusconi. Ma le posizioni sono tutt’altro che univoche. Perfino sul cambio di nome i due nuovi coordinatori, Mara Carfagna e Giovanni Toti, hanno posizioni antitetiche. La vicepresidente della Camera taglia corto: «Non è la priorità. E poi penso che cambiare significhi chiudere con un passato ingombrante». Possibilista, invece, il governatore ligure: «Se vogliamo recuperare elettori, mettiamolo in conto».

Ma le divergenze più aspre tra i due riguardano l’atteggiamento da tenere verso la Lega. Carfagna è perentoria: «Siamo alleati, ma non vogliamo essere la ruota di scorta. I rapporti di forza sono certamente cambiati, ma rivendichiamo la nostra centralità nel centrodestra». Toti, invece, sogna una formazione sovranista con Giorgia Meloni per affiancare Salvini nella scalata a Palazzo Chigi e nella realizzazione di un polo di centrodestra a trazione leghista.

Neppure a sinistra mancano le lacerazioni. Il neo eurodeputato Carlo Calenda ha mostrato sui social tutta la sua irritazione per le divisioni nel partito («Mi vergogno di essere andato in giro a chiedere voti per un partito che è incapace di stare insieme anche mentre il paese va a ramengo»), ma oscilla tra il restare nel Pd e il disegno di costruzione di una forza politica alternativa. Cioè, con un piede sta dentro e con l’altro sta fuori dal perimetro dem, accrescendo la confusione. Senza contare il braccio di ferro permanente tra zingarettiani e renziani, questi ultimi esclusi dalla nuova segreteria del partito.

Il numero di iscritti ai partiti continua a decrescere vertiginosamente. D’altronde che appeal esercitano oggi questi contenitori rissosi al loro interno e impermeabili alle istanze di cambiamento incarnate dalle nuove generazioni? Le aggregazioni nella società si formano sempre più marcatamente su temi come la sicurezza, l’economia, l’ambiente, il lavoro, l’istruzione, i servizi, la rivoluzione tecnologica, la difesa del territorio. La trasversalità e la flessibilità sono le nuove categorie della politica, ma gli uomini di partito sembrano non averlo ancora per nulla compreso.