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TESTIMONIANZE

Pakistan. Il governo non difende i cristiani

Polizia che distoglie lo sguardo al momento buono, nessuna garanzia dei diritti e fine della moratoria della pena di morte: sono tante le preoccupazioni della comunità cristiana in Pakistan all'indomani del duplice attentato di Lahore. Ne parlano a La Nuova Bussola Quotidiana mons. Sebastian Francis Shah, arcivescovo di Lahore e padre James Channan direttore del locale Centro Domenicano per la Pace.

Esteri 17_03_2015
Lahore, esequie

Due agenti di polizia non forniscono di certo un’adeguata protezione a due chiese affollate da quasi mille fedeli ciascuna. Tuttavia se fossero stati in servizio, anziché seguire dalla tv di un negozio la partita di cricket tra Pakistan e Irlanda, qualcosa sarebbe potuto andare diversamente.

E invece a difesa della Chiesa cattolica di San Giovanni e di quella anglicana, Chiesa di Cristo, colpite ieri (15 marzo) mattina a Lahore da due attacchi suicidi, vi erano soltanto dei volontari cristiani. Giovani che a costo della propria vita hanno impedito ai kamikaze di entrare all’interno delle due Chiese, e di mietere un numero ben più elevato di vittime.

«Il governo dovrebbe fare molto di più per proteggere le nostre Chiese», dichiara a La Nuova Bussola Quotidiana l’arcivescovo di Lahore, monsignor Sebastian Francis Shah. Da tempo, informa in un comunicato la Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale del Pakistan, i cristiani avevano chiesto maggiore protezione, specie a seguito di ripetute minacce da parte dei fondamentalisti. Ma come spesso accade nel paese asiatico, le richieste della piccola minoranza sono rimaste inascoltate.

Non appena informato dell’accaduto, avvenuto intorno alle 12, monsignor Shah ha visitato il luogo dell’attentato. «Quindici persone sono rimaste uccise e più di 80 ferite», riferisce lodando i giovani volontari a protezione delle due chiese, che con i loro sacrificio hanno salvato centinaia di vite. Nel ricordo dei «martiri» che hanno perso la vita negli attacchi, oggi la Chiesa pachistana ha indetto una giornata di preghiera e tenuto chiusi tutti gli istituti e le scuole cattolici. «Qui in Pakistan soltanto i musulmani vengono chiamati martiri - afferma a La Nuova Bussola Quotidiana padre James Channan direttore del Centro Domenicano per la Pace di Lahore – ma anche il martirio delle nostre vittime andrebbe riconosciuto».

Lahore, esequie

L’attacco è stato rivendicato dal gruppo Jammatul Ahrar, formazione che lo scorso anno si era distaccata dal Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP) e che nei giorni scorsi si è fusa con altri due gruppi oltranzisti per riunirsi nuovamente ai talebani. «I terroristi colpiscono il governo, le scuole, le chiese, i templi indù – spiega padre Channan – e vogliono dimostrare che ogni obiettivo è alla loro portata». Secondo il religioso, l’attentato vuole essere anche una prova di forza dei fondamentalisti nei confronti delle autorità pachistane, in seguito alle recenti operazioni antiterroristiche dell’esercito nazionale. Padre Channan non crede invece all’ipotesi di un coinvolgimento dello Stato Islamico. «Molti dei gruppi estremisti sono sostenitori di Is, ma saranno necessari anni prima di una collaborazione attiva tra Isis e talebani».

Rivendicando l’attacco su Twitter – riporta l’agenzia di intelligence specializzata in terrorismo Site intelligence group - il portavoce del Jamat-ul-Ahrar, Ehsanullah Ehsan, ha attribuito l’attentato alla “Brigata Aafia Siddique”. Aafia Siddique, anche nota come “Lady al-Qaeda”, è una cittadina pachistana che sta scontando 86 anni di reclusione negli Stati Uniti per il tentato omicidio di alcuni ufficiali dell'esercito statunitense. Recentemente citata anche da membri dello Stato Islamico, la donna rappresenta per i terroristi un simbolo dell’ingiustizia americana e dell’accanimento dell’Occidente nei loro confronti.

Il riferimento ad Aafia potrebbe attribuire all’attentato di Lahore l’intento di colpire l’Occidente attraverso i cristiani. Riconoscendo la paternità dell’attentato alla Chiesa di Ognissanti di Peshawar, i talebani avevano definito il proprio gesto una vendetta per gli attacchi di droni statunitensi in territorio pachistano, minacciando di colpire altre chiese qualora Washington non avesse sospeso le operazioni dei velivoli senza pilota. «Pur essendo cittadini del Pakistan – spiega padre Channan – noi cristiani siamo spesso erroneamente identificati con l’Occidente. Ciò significa che diveniamo obiettivo dei terroristi, in cerca di vendetta per le “colpe” di America e Europa. Ecco perché l’Occidente dovrebbe impegnarsi maggiormente in difesa dei cristiani e di tutte minoranze religiose in Pakistan».  

Un maggiore impegno è ancor più necessario da parte del governo pachistano, come sottolinea anche Commissione “Giustizia e Pace” auspicando la «volontà politica» di attuare «le raccomandazioni della Corte Suprema sulla tutela delle minoranze religiose e sull’eliminazione del terrorismo dalla società». Un’eventualità che appare alquanto remota se si guardano alle discriminazioni e le persecuzioni subite quotidianamente dai cristiani del Pakistan. Soltanto il 12 marzo scorso un giovane cristiano è stato torturato a morte dalla polizia. Il 25enne Zubair Masih era stato preso in custodia a seguito di accuse formulate contro la madre dal datore di lavoro musulmano della donna.

La minoranza cristiana è inoltre preoccupata per la decisione del governo di Islamabad di revocare la moratoria sulla pena di morte in vigore dal 2008. La moratoria era stata sospesa per i soli casi di terrorismo, all’indomani dell’attentato contro una scuola di Peshawar, ma il 10 marzo scorso il primo ministro Nawaz Sharif ha annunciato la decisione di estendere il provvedimento a tutti i reati che prevedono la condanna capitale. 

Tra gli oltre 8mila condannati a morte in Pakistan, vi sono anche cristiani accusati di blasfemia, come Asia Bibi o Sawan Masih. E la revoca della moratoria, rappresenta pericolo ancor più grave per le loro vite.