Padre Cremonesi, missionario secondo il cuore di Gesù
Martire in Birmania, dove fu missionario per oltre 27 anni, padre Alfredo Cremonesi (†1953) aveva già da seminarista l’ardente desiderio di andare in missione per «gridare a tutti e predicare la Buona Novella», annunciando instancabilmente Gesù «con la parola e con l’esempio, con la penna e soprattutto con la preghiera». Oggi la sua beatificazione a Crema, dopo il riconoscimento del martirio in odium fidei.
Il compianto padre Piero Gheddo, incaricato di scrivere una biografia sull’oggi beato Alfredo Cremonesi, confratello e missionario del Pime di cui ignorava tutto eccetto il martirio, scrisse di essere arrivato a volte a commuoversi «fino alle lacrime» nel comporre la vita di padre Alfredo (Alfredo Cremonesi 1902-1953. Un martire per il nostro tempo – Emi, 2003), dopo essersi, per mesi, immerso nella lettura e meditazione del suo epistolario e delle testimonianze su di lui. Che gli fecero scoprire «un autentico campione di santità sacerdotale. Che poi sia morto martire è solo una conseguenza della sua vita, un dono che Dio ha fatto ad un prete che era già tutto suo».
Oggi pomeriggio quel prete, ucciso in Birmania (Myanmar) il 7 febbraio 1953, sarà beatificato nella cattedrale di Crema, dopo che lo scorso 19 marzo il Papa ha riconosciuto il suo martirio in odio alla fede.
Primo di sette figli, nato nel maggio 1902 in un paesino della provincia di Cremona (Ripalta Guerina) da genitori cattolici, Alfredo aveva appena 11 anni quando entrò nel seminario diocesano di Crema. Spesso malaticcio, fu affetto di linfatismo, poliartrite e scrofola, venendo costretto a lunghe degenze nel suo tempo da seminarista, fino a quando si temette che fosse destinato a una morte imminente. Pieno di talento nello scrivere, dai romanzi alle poesie, amava la letteratura missionaria al punto da dire «che c’era tutto il mio cuore là dentro, perché era il grande ideale che mi agitava potentemente», fin dall’inizio del seminario, sebbene credesse di non avere il coraggio di imitare i missionari di cui leggeva nei libri.
E poi, appunto, c’era la malattia. Ma il desiderio di guarire - con il fine, come scrisse poi in una lettera, di «gridare a tutti e predicare la Buona Novella» - gli fece chiedere l’intercessione di Teresa del Bambin Gesù, di cui aveva letto Storia di un’anima. Era il 1921, l’anno in cui Teresa venne proclamata venerabile (sei anni più tardi diventerà patrona delle missioni), e il giovane Alfredo, con grande sorpresa del suo medico, guarì completamente. L’anno successivo decise di lasciare il seminario diocesano per entrare in quello missionario: a settembre cominciò così la sua avventura al Pime (Pontificio istituto missioni estere) di Milano e due anni più tardi, il 12 ottobre 1924, fu ordinato sacerdote.
Arrivò infine il tempo dell’agognata missione, che lui concepiva - già molto prima della partenza - come un annuncio instancabile di Gesù «giorno e notte, a tutti, e dappertutto, con la parola e con l’esempio, con la penna e soprattutto con la preghiera, e poi suggellare il mio apostolato con il martirio […]»[1], da cui far nascere nuove conversioni. Come una profezia. Nell’ottobre 1925 salpò verso la Birmania e il 10 novembre arrivò a Toungoo, sede di una diocesi, dove dovette darsi da fare per apprendere la lingua, abituarsi al clima e a uno stile di vita totalmente diversi.
Dopo i primi tempi ad aiutare con le immancabili scartoffie, fu mandato per le montagne birmane, in giro tra villaggi cattolici o ancora pagani, di solito molto distanti l’uno dall’altro perché «i monti sono innanzitutto una riserva del prezioso teck, “vera cuccagna” del governo. […] si cammina a volte giornate intere senza incontrare nessuno. Bisogna quindi portarsi dietro tutto, se non si vuol morire di fame». In breve, padre Alfredo, pur animato da un entusiasmo enorme, affrontò fatiche e privazioni indicibili, che non di rado lo portavano a scoraggiarsi. «Vi dico il vero: molte volte mi sono sorpreso a piangere come un bambino, al pensiero di tanto bene da fare e alla mia assoluta miseria».
Miseria che però consegnava a Dio, trovando ristoro in Lui nella preghiera e nell’adorazione eucaristica. A mezzanotte si alzava per stare un’ora a contemplare il Santissimo Sacramento; poi tornava a dormire, e alle quattro del mattino era di nuovo in piedi per le lodi e celebrare Messa. Insegnava catechismo, diffondeva la devozione al Sacro Cuore di Gesù, assisteva gli ammalati e si prodigava in varie altre attività. Creò anche diverse nuove scuole «per far fronte al bisogno che tutti sentono di istruzione e per non lasciarci rubare le posizioni dai battisti. E quando sono a casa alla sera, devo far scuola a tutti i giovanotti del paese», come scriveva ai genitori, ricordando l’esempio ricevuto dal padre fin dall’infanzia. Il tutto lo faceva per amore del prossimo e a maggior gloria di Dio, cosciente di essere come uno dei servi inutili del Vangelo, strumenti della Grazia: «Noi missionari domandiamo sempre per prima cosa la preghiera. Il nostro è il più misterioso e il più meraviglioso lavoro che sia dato all’uomo non di compiere, ma di vedere: convertire anime ed anime così rozze che non hanno nessuna idea di soprannaturale. È un miracolo più grande di ogni altro miracolo».
In mezzo alle conversioni senza numero, «il sorriso della missione» - come chiamavano padre Alfredo - passava da una malattia all’altra, malaria compresa. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e il successivo ingresso nel conflitto del nostro Paese, i missionari italiani in Birmania - allora colonia britannica - attraversarono periodi durissimi, venendo visti come nemici prima dagli inglesi e poi, dopo l’8 settembre 1943, dai giapponesi che intanto avevano invaso la terra birmana. In quegli anni padre Alfredo si ridusse all’osso, mangiando quasi solo erbe cotte e «non ebbi mai una goccia di olio per condimento, non si vide mai pane, mancammo per anni di zucchero, ci venne a mancare persino il sale […]». Nell’ultimo mese di guerra, i nipponici, ormai in ritirata, lo legarono per una notte e un giorno.
A guerra finita poté tornare a Donoku, dove passò buona parte dei suoi oltre 27 anni di missione, e riprendere tutto daccapo. Ma già dal 1948, con l’indipendenza della Birmania, sorsero nuovi problemi, per la ribellione delle varie minoranze etniche, in particolare dei cariani di fede battista, al governo nazionale. I cattolici non si unirono alla rivolta, venendo malvisti dai ribelli e senza godere di alcuna protezione da parte dell’esercito governativo. Dopo l’assassinio nel 1950 di due sacerdoti del Pime, Mario Vergara e Pietro Galastri, padre Alfredo fu costretto a quello che lui chiamò «esilio», tornando nella più sicura Toungoo, ma con il cuore agli abitanti del villaggio che aveva lasciato. In quella lontananza da Donoku scrisse tra l’altro alla cugina Amina Uselli, affidandosi «alle tue preghiere ed a quelle dei tuoi bambini. Il Signore ascolta tanto volentieri le preghiere dei bambini». Fece ritorno nel suo amato villaggio nel 1952, dopo aver ottenuto il permesso dal vescovo, sapendo che «al massimo mi potranno ammazzare».
Gli scontri tra ribelli e governativi continuarono. Si arrivò al 7 febbraio 1953, quando, a seguito di un’imboscata dei cariani, i soldati regolari - su tutte le furie - accusarono il villaggio di Donoku di appoggiare la rivolta. Si sbagliavano, ma padre Alfredo stavolta non venne ascoltato. Una scarica di mitra investì il capo del villaggio e il sacerdote, colpito al petto. Poi toccò alla chiesa essere devastata e infine - quando il comandante si accorse che padre Alfredo Cremonesi, a terra, era ancora vivo - gli venne sparato un colpo nel volto. Il giorno dopo i cristiani seppellirono i morti, tagliarono un po’ di barba del missionario e presero alcuni pezzi insanguinati dei suoi vestiti, inviando un messaggero a Toungoo con una busta recante la scritta: «Reliquie del martire padre Cremonesi da mandarsi ai suoi genitori». Sapevano già di aver conosciuto un santo.
[1] Lettera a suor Gemma (una zia) del 17 maggio 1922.