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LA MORTE DEL CALCIATORE

Pablito, l'ottimismo patrio che ci servirebbe ora

La morte del calciatore, eroe dell'Italia Mundial '82, a 64 anni. Ci sentivamo un po’ tutti Paolo Rossi e lui ci rappresentava tutti. Pablito ha regalato all’Italia un po’ di autentica felicità e di ottimismo patrio. Forse è anche per questo che ora lo rimpiangiamo così tanto, in questi mesi così cupi in cui l’italiano perfetto dovrebbe essere quello che si barrica in casa.

Sport 11_12_2020

Siamo qui a ricordare, a pochi giorni dalla scomparsa di Maradona, un altro grande del calcio: Paolo Rossi. È spirato mercoledì a 64 anni, perdendo contro un tumore una partita durata a lungo e assai sofferta. Lascia la moglie e tre figli. Se dici Paolo Rossi, subito ti viene in mente il Mondiale spagnolo vinto dagli azzurri nell’82, i ragazzi di Bearzot, il presidente Pertini che dalla tribuna dello stadio nella finale con la Germania si sbracciava per dire che ormai per i tedeschi non c’era più nulla da fare, i sei gol di Pablito in cui brilla ancora la sua tripletta allo stellare Brasile di Socrates, Falcão e Zico.

Tripletta che gli costò cara. Tornato a giocare in Brasile nell’89 per la seconda edizione della Coppa Pelè, gli fu affibbiato il nomignolo Carrasco do Brasil, ossia il boia del Brasile. In una partita, mentre giocava, gli piovve addosso di tutto: noccioline, bucce di banana, addirittura monetine. Non potè rientrare in campo nel secondo tempo. In quell’occasione, «un giorno un tassista – racconta Pablito –  dopo avermi riconosciuto, s'è fermato, ha accostato e mi ha intimato di scendere. Ho dovuto discutere per un po' prima di riuscire a fargli cambiare idea: mi ha riportato in hotel». Rossi, che ha iniziato a tirare i suoi primi calci al pallone nell’oratorio di Santa Lucia a Prato, è stato il solo giocatore al mondo, insieme a Ronaldo, che, nello stesso anno, ha vinto un mondiale, è stato marcatore in questa stessa competizione e ha alzato al cielo il Pallone d’oro.

Un attaccante, se vogliamo anomalo. Segaligno di aspetto, era sì rapido, ma non potente. Soprattutto Paolo Rossi era astuto, opportunista. «Un clandestino dell’area di rigore» come lo ricorda l’amico e giornalista Mario Sconcerti. Si trovava sempre nel posto giusto al momento giusto - «quello era il suo mestiere, rubare il tempo» -  e alla fine spesso segnava perché spizzicava la sfera con il piede, la testa o con un’altra parte del corpo calcisticamente meno nobile. Ma, prima di quel gesto così semplice, c’era l’intuito di prevedere in quale momento preciso e dove sarebbe finita la palla. Giorgio Tosatti lo definì un giocatore con «la grazia del ballerino e la spietata freddezza del torero». Lui stesso parlò delle sue doti in questi termini: «Io non segno quasi mai di potenza, generalmente conquisto quei due metri che costano il goal all'avversario. Per me, è fondamentale il gioco senza palla, lo smarcamento, quando la palla non c'è, è indispensabile. Non ho avuto dalla sorte un grande fisico e mi debbo far furbo».

Ha sofferto durante la sua attività calcistica tanto che dovette abbandonare i campi da calcio a solo 31 anni per vari infortuni. Ma soffrì anche fuori dagli stadi. Due anni di squalifica per una brutta storia di calcio scommesse – vicenda giudiziaria piena di ombre – che gli fece saltare un Europeo, ma che terminò proprio poco prima di prendere l’aereo per la Spagna nell’82.

Come si legge diffusamente sui quotidiani in queste ore, Paolo Rossi era entrato ormai da tempo nell’immaginario collettivo. Non solo per averci regalato forse il più bel mondiale di sempre, ma anche per i suoi modi, sempre gentili, garbati, dimessi, mai polemici, stando ai racconti dei suoi amici. E l’amicizia, ci piace pensarlo, non è in questo caso una lente che distorce la realtà, ma che la mette a fuoco meglio.

Il destino, che per chi crede si chiama Provvidenza, gli aveva assegnato un nome e un cognome che sono il paradigma, la quintessenza dell’italianità. E così noi ragazzini di allora e i nostri genitori ci sentivamo un po’ tutti Paolo Rossi e lui, di converso, ci rappresentava tutti. Sarà retorico dirlo, ma per davvero Pablito regalò all’Italia, insieme a suoi compagni, un po’ di autentica felicità in quell’abbrivio degli anni Ottanta e segnò un punto di svolta anche per un certo ottimismo patrio. Forse è anche per questo che ora lo rimpiangiamo così tanto, in questi mesi così cupi in cui l’italiano perfetto dovrebbe essere quello che si barrica in casa.

Chiudiamo con una citazione del già ricordato Mario Sconcerti, citazione che suona tanto come un commosso epitaffio: «Un uomo buono, un eroe dei tempi, leggero come una piuma e disinteressato alla sua bravura. Non gli ho mai sentito dire una volta che è stato un grande giocatore». Preghiamo per lui.