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IL LIBRO

Omofobi per legge, una spada di Damocle sulla libertà

Vaghe, incompatibili con il sistema penalistico italiano e foriere di derive totalitarie. Sono le proposte per introdurre il reato di cosiddetta “omotransfobia”, analizzate ai raggi X da sette giuristi del Centro Studi Livatino. Che hanno raccolto le loro riflessioni in un libro a cura di Alfredo Mantovano, “Omofobi per legge? Colpevoli per non aver commesso il fatto” (Cantagalli), che verrà presentato oggi a Roma.

Attualità 14_07_2020

Le proposte per introdurre il reato di cosiddetta “omotransfobia” sono vaghe, incompatibili con il sistema penalistico italiano e foriere di derive totalitarie. È questo, in estrema sintesi, il giudizio che viene fuori dalle 120 pagine del libro “Omofobi per legge? Colpevoli per non aver commesso il fatto”, edito da Cantagalli e frutto del lavoro di sette giuristi del Centro Studi Livatino.

Il volume, un prezioso strumento di comprensione, sarà presentato questo pomeriggio a Roma (17.30, Palazzo Marescotti, sala Apollo, necessaria la prenotazione via e-mail). Costituisce una raccolta - curata da Alfredo Mantovano in modo da non sovrapporre gli argomenti - delle audizioni in commissione alla Camera dei rappresentanti del Livatino sulle cinque proposte (Bartolozzi, Boldrini, Perantoni, Scalfarotto, Zan) poi confluite nel Ddl unificato depositato da Zan&Co il 30 giugno. Il Livatino ha pubblicato sul proprio sito, a mo’ di appendice online del libro nel frattempo andato in stampa, una scheda di lettura critica dell’articolato, spiegando che «più che una sintesi, il t.u. Zan sembra la sommatoria delle cinque p.d.l.». Anche per questo motivo, rimane interessante l’analisi d’apertura dell’avvocato Francesco Farri che getta uno sguardo sulle peculiarità di ognuna delle cinque proposte originarie.

Segue la relazione di Domenico Airoma, procuratore della Repubblica aggiunto del Tribunale di Napoli Nord, il quale ricorda che la sanzione penale copre già i fini dichiarati dai promotori delle norme contro l’“omofobia”, che si rivelano dunque un mero pretesto per altro. Airoma fa quindi una ricostruzione storico-culturale del termine “omofobia”, il cui uso «ha conosciuto almeno tre fasi»: l’emersione del neologismo negli anni Settanta, sull’onda della rivoluzione sessantottina; l’incremento notevole della sua frequenza nella seconda metà degli anni Novanta, con la grande spinta politica – a sinistra – per il riconoscimento pubblico delle unioni tra persone dello stesso sesso; infine, e siamo alla fase attuale, il salto di qualità che mira alla criminalizzazione dell’“omofobia” per completare la rivoluzione antropologica e dunque favorire «una concezione dell’uomo definitivamente sganciata da qualsiasi ordine oggettivo».

L’avvocato Mauro Ronco, professore emerito di Diritto Penale, si sofferma sulla pericolosità di estendere i già discutibili “reati d’odio” a motivi legati a “orientamento sessuale” e “identità di genere”: ciò «segnerebbe il passaggio abnorme del diritto penale verso un modello che punisce la manifestazione di idee per correggere gli individui in ordine alla loro disposizione interiore». Il reato d’opinione che così verrebbe introdotto - aggiunge Ronco - violerebbe non solo l’art. 21 della Costituzione (libera manifestazione del pensiero), ma anche gli articoli 18 (libertà di associazione) e 19-20 (libertà di religione).

Dal canto suo, Mantovano ribadisce - dati dell’Oscad alla mano - l’inesistenza della tanto sbandierata emergenza “omofobia” e smonta l’idea che vi sia un vuoto normativo. Infatti, il nostro ordinamento punisce già i delitti contro la vita (art. 575 e ss. Cod. Pen.), contro l’incolumità personale (art. 581 ss. C.P.), i delitti contro l’onore, come la diffamazione (art. 595 C.P), i delitti contro la personalità individuale (art. 600 ss. C.P.), i delitti contro la libertà personale, come il sequestro di persona (art. 605 C.P.) o la violenza sessuale (art. 609 ss. C.P.), i delitti contro la libertà morale, come la violenza privata (art. 610 C.P.), la minaccia (art. 612 C.P.) e gli atti persecutori (art. 612 bis C.P.). A ciò si aggiunge l’aggravante dei motivi futili e abietti (art. 61 C.P.), che può essere invocata da tutti, anche da chi lamenta un’offesa fondata sull’“orientamento sessuale”. Introdurre le norme pretese dal fronte Lgbt, invece, costituirebbe una discriminazione al contrario, facendo rischiare la sanzione a chi semplicemente dice che un bambino debba crescere con mamma e papà.

Carmelo Leotta, professore associato di Diritto Penale, evidenzia che le varie proposte sull’“omofobia” mancano del fondamentale «requisito di sufficiente determinatezza della norma incriminatrice». Inoltre, a proposito delle pene accessorie per il presunto “omofobo”, Leotta spiega che l’attività gratuita a favore di organizzazioni Lgbt avrebbe il carattere di un «lavoro-pena afflittiva, volto a perseguire una funzione di stigma».

Ricca di spunti anche l’analisi dell’avvocato Francesco Cavallo, che si basa su esempi concreti degli Stati Uniti. Si ricordano così le persecuzioni giudiziarie (e non solo) che hanno dovuto subire diversi lavoratori - come fiorai, fotografi, pasticcieri, pizzaioli - per il semplice fatto di essersi rifiutati di prestare la propria opera professionale per la celebrazione di “nozze gay”. In tribunale sono finiti anche ospedali cattolici che si sono rifiutati di fare interventi per il cosiddetto (impossibile) “cambiamento di sesso”, ed enti per le adozioni che non hanno voluto affidare bambini a coppie gay.

Chiude l’intervento dell’avvocato Roberto Respinti, che vede il problema di fondo nell’ideologia del politicamente corretto. Fatti salvi i giusti limiti alla libertà d’espressione (vedi quando questa scade in ingiuria, diffamazione, ecc.), Respinti fa presente che la norma di legge deve essere per definizione “generale” ma non “generica”: «Se la norma che traduce l’ansia antidiscriminatoria è molto generica, la libertà di espressione di ciascuno rischia di finire col dipendere sempre più dall’ideologia che ispira il singolo giudice chiamato ad applicarla: il che, se e quando si verifica, non va né nel senso delle libertà (di qualunque libertà, inclusa quella del pensiero), né in quello dell’eguaglianza».