Obama manda noi nel baratro fiscale
L'accordo in extremis raggiunto negli Usa verrà pagato dai lavoratori europei. C'è allora qualcosa di patetico nell'automatico entusiasmo per qualunque cosa faccia Obama che caratterizza i corrispondenti dagli Usa della nostra stampa e delle tv, quasi tutti di stampo progressista.
Evitando in extremis il “baratro fiscale”, fiscal cliff - ovvero l’avvio prestabilito di un drastico meccanismo di taglio delle spese e di aumento delle entrate che avrebbe dimezzato il deficit del governo di Washington entro la fine del corrente anno 2013 – Barack Obama non ha fatto altro che scaricare sulle spalle del resto del mondo il costo del salvataggio degli interessi popolari (si fa per dire) della maggioranza elettorale che nell’autunno scorso l’ha rieletto presidente.
Ha trovato così ancora una volta conferma una legge storica già verificabile all’epoca dell’antica Roma, secondo cui chi rappresenta gli interessi popolari in un Paese imperiale finisce poi per finanziare la propria politica sociale attingendo più a risorse esterne che a quelle dei suoi agguerriti antagonisti interni. Si comportavano già così i tribuni della plebe dell’antica Roma quando facevano confiscare in Sicilia, e non nei vicini latifondi dei Quiriti patrizi, il frumento da distribuire alla plebe romana di cui erano i difensori. E così ha fatto adesso Obama, ovviamente con la maggior raffinatezza tecnica e nelle dimensioni planetarie che sono tipiche del nostro tempo.
Perciò c’è obiettivamente qualcosa di patetico nell’automatico entusiasmo per qualunque cosa faccia Obama che caratterizza i corrispondenti dagli Usa della stampa e della Tv italiane, quasi tutti di orientamento “progressista”. Non si accorgono i meschini che il futuro di quelle masse di lavoratori dipendenti, di precari e di disoccupati italiani (ed europei in genere) che pretendono di rappresentare sarebbe stato assai più roseo se Romney avesse preso il posto di Obama. La questione è ovviamente più complessa, ma per farsene un’idea basta considerare alcuni pochi dati di fondo. Gli Stati Uniti hanno un debito pubblico pari al 105,5 per cento della loro produzione nazionale lorda. Non è il 120,1 per cento dell’analoga percentuale riferita al nostro Paese, ma è comunque un valore tale che se gli Usa fossero membri dell’Unione Europea li metterebbe fuori - anche loro - dai famosi “parametri di Maastricht”.
Diversamente dal nostro è tra l’altro un debito per lo più estero essendo sopratutto detenuto da persone, enti e governi stranieri. A fronte di tale debito la pressione fiscale è pari in America al solo 26,9 per cento della produzione nazionale lorda. Come fanno allora gli Usa a mantenere la macchina delle istituzioni, un enorme apparato militare, i servizi pubblici, e pagare gli interessi del loro debito se ad esempio l’Italia fatica a pagare gli interessi del suo con una pressione fiscale che quest’anno arriverà ufficialmente al 45 per cento (ma nei fatti al 50)? Semplice: continuando a indebitarsi e stampando sempre più dollari il cui valore è in sostanza garantito non tanto dalla loro economia quanto dalla loro potenza.
Con la legge chiamata fantasiosamente American Taxpayer Relief Act (ovvero “Legge per il sollievo del contribuente americano”), approvata dal Senato nella notte di Capodanno e da lui firmata il 2 gennaio, il presidente Obama ha lasciato immutata la pressione fiscale sui ceti medi e accresciuto invece quella sulle persone fisiche con un reddito individuale superiore ai 250 mila dollari nonché sulle proprietà di valore superiore ai 5 milioni di dollari. Ha potuto così affacciarsi alla ribalta nazionale e internazionale andando a dire di avere, come promesso, evitato l’avvio del “baratro fiscale” tassando i ricchi senza toccare i ceti medi.
In realtà questa sua uscita è pura demagogia. Siccome infatti in valore assoluto il grosso della ricchezza americana tassabile è nelle mani dei ceti medi, le nuove maggiori imposte sui ricchi sono relativamente bruscolini; e meno che mai basteranno a coprire il costo dell’ulteriore crescita del debito pubblico che l’American Taxpayer Relief Act porterà con sé. Perciò ben presto gli Stati Uniti riprenderanno a pompare risorse dal resto del mondo facendo la guerra all’euro a colpi di un continuo aumento della circolazione del dollaro e a colpi di ulteriori emissioni di buoni del Tesoro americano. Barack Obama insomma punta a salvare i suoi dal “baratro fiscale” buttandoci dentro noi. Non si vede perché mai dovremmo rallegrarcene.