Obama bocciato, niente poteri straordinari nei negoziati
La scorsa settimana si è conclusa a Washington con una cruciale sconfitta del presidente Obama: il Congresso gli ha negato i poteri straordinari che egli aveva chiesto per poter concludere le trattative, in corso da oltre dieci anni, in vista della creazione di un mercato comune trans-pacifico.
La scorsa settimana si è conclusa a Washington con una cruciale sconfitta del presidente Obama: il Congresso gli ha negato i poteri straordinari che egli aveva chiesto per poter concludere le trattative, in corso da oltre dieci anni, in vista della creazione di un mercato comune trans-pacifico noto con il nome di Trans-Pacific Partnership (Tpp). I Paesi interessati sono (o forse erano) Usa, Canada, Giappone, Singapore, Vietnam, Malesia, Brunei, Australia, Nuova Zelanda, Messico, Cile, Perù: un insieme di economie che complessivamente rappresentano il 40% del prodotto interno lordo del mondo. Tali trattative verranno pertanto “congelate”; e insieme a esse anche quelle che erano in corso in vista di un analogo accordo con l’Unione Europea.
Nel fiume di notizie, in larga misura inesatte o irrilevanti, che ogni giorno si rovesciano sulle nostre teste, è buona cosa fare lo sforzo di notare e di fissarsi poi nella memoria le poche che sono davvero importanti, e che molto spesso non hanno affatto il rilievo che meritano: la notizia di cui dicevamo è una di queste. Era sul tappeto la richiesta del fast track (corsia preferenziale), come viene definito nel gergo politico americano la concessione al presidente del potere speciale di negoziare accordi internazionali senza tenere stabilmente informato il Parlamento e con l’impegno da parte di questo di approvarli poi o respingerli con un “sì” o un “no” secco, senza ostruzionismi. Contro tali poteri speciali, già approvati dal Senato, alla Camera dei Rappresentanti si sono invece schierati non solo i repubblicani, ma anche i democratici. A questo punto, per evitare di venire così sconfessato anche dal proprio partito, Obama ha ritirato la richiesta.
La sospensione dei negoziati per i due accordi trans-pacifico e transatlantico è destinata ad avere conseguenze cruciali sul futuro delle relazioni degli Stati Uniti con il resto del mondo: conseguenze comunque importanti anche se non necessariamente negative. Da entrambe le rive dei due Oceani sia gli interessi colpiti sia quelli avvantaggiati sono per così dire “trasversali”. Non siamo più di fronte al tradizionale conflitto tra capitale e lavoro: in ognuna delle due aree ci sono sia l’uno sia l’altro. Questo spiega perché, nel caso dei poteri speciali negati a Obama, la scarsa propensione “liberista” dei repubblicani per qualsiasi forma di vincolo ex lege del commercio internazionale si sia sommata con la preoccupazione “laburista” dei democratici per le sorti degli operai dell’industria manifatturiera e di altri settori tradizionali più esposti alla concorrenza di prodotti fabbricati in Asia. Di fronte a questo complesso intreccio di interessi anche per gli Stati Uniti il sistema delle trattative riservate che si concludono con un “prendere o lasciare” diventa meno accettabile di quanto un tempo fosse; tanto più che Washington non ha più la forza di imporre altrettanta riservatezza a tutte le altre parti in gioco.
Si aggiunga che, come bene dimostra l’esperienza dei trattati dell’Unione Europea, accordi internazionali elaborati e gestiti senza adeguato controllo politico diventano spesso il “cavallo di Troia” di cui lobbies di ogni genere si avvalgono per dare indirettamente, al di fuori di qualsiasi confronto pubblico e controllo democratico, forma di legge a quanto loro interessa. All’ombra del libero scambio non di rado si vanno così a mettere le mani su questioni di grande rilievo umano che non c’entrano per nulla con il commercio internazionale: dalla “salute riproduttiva” al diritto di famiglia. Sin qui gli aspetti immediatamente positivi della sconfitta di Obama di cui si diceva.
Restano poi da considerare anche aspetti più ambivalenti, il primo dei quali è la sconfitta di una strategia che mirava a costruire attorno agli Stati Uniti una “fortezza” transoceanica tendenzialmente contrapposta alle grandi economie emergenti dell’emisfero Sud, dalla Cina all’India, al Brasile, e chiusa verso la Russia da un lato e verso il mondo arabo dall’altro. Molto bene, a nostro avviso, purché però ci si metta a lavorare su progetti alternativi, ma di respiro altrettanto ampio. Ed è questo che evidentemente oggi manca. Come in tutti gli altri campi cruciali dell’esperienza umana anche nelle relazioni internazionali lasciare un vuoto non è mai prudente: se non ci preoccupa infatti di riempirlo di qualcosa di meglio c’è sempre il rischio che venga riempito da qualcosa di peggio di ciò che c’era prima.