Nozze gay, la resa dei vescovi francesi
In Francia l'episcopato invita coloro che hanno manifestato contro la legge Taubira ad accettare la sconfitta e occuparsi d'altro (esodati e Rom). Un preoccupante segnale di stanchezza e una passiva accettazione di ciò che è ingiusto.
Quello che succede nella Chiesa cattolica in Francia, dopo le grandi manifestazioni contro la legge Taubira che ha introdotto il matrimonio e le adozioni omosessuali, è di qualche interesse per l'Italia, dove rischiamo di vedere presto lo stesso film.
Riassumo, per comodità del lettore, solo le ultime puntate della saga. 4 giugno: il Consiglio «Famiglia e società» della Conferenza episcopale francese (CEF), presieduto dal vescovo di Le Havre mons. Jean-Luc Brunin e che comprende vescovi ed esperti, pubblica il documento «Proseguiamo il dialogo!», dove invita alla riconciliazione fra quanti - anche all'interno del mondo cattolico - hanno militato su sponde opposte nella questione del matrimonio omosessuale. 10 giugno: diverse voci del mondo cattolico conservatore - non necessariamente legato agli ambienti cosiddetti «lefebvriani» - chiedono che la CEF revochi l'incarico ai componenti del Consiglio «Famiglia e società», accusati d'insegnare una dottrina in materia di unioni omosessuali non conforme al Magistero della Chiesa. 13 giugno: interviene il Consiglio permanente della CEF che, senza sconfessare il Consiglio «Famiglia e società» - e ovviamente senza revocarne i membri - precisa però che tra chi manifestava contro e chi a favore della legge Taubira la Chiesa non è neutrale; che chi si opponeva a una legge che apre «ferite» nel corpo sociale aveva ragione; che il suo impegno «non è stato vano» e che dovrà continuare occupandosi di «altri campi dove la vigilanza è richiesta per il rispetto della persona umana», allusione evidente alla legge sull'eutanasia il cui iter legislativo è già cominciato in Francia.
Ma che cosa si legge nel documento «Proseguiamo il dialogo!»? A leggerlo di dritto e di rovescio - meglio due volte, perché cede talora a quel linguaggio «ecclesialese», comprensibile solo ai professionisti dei piani pastorali, tante volte sconsigliato da Papa Francesco - si scopre anzitutto che non include nessuna apologia dell'omosessualità, così che alcune critiche su questo punto appaiono sopra le righe e ingiustificate. Il documento afferma che la persona omosessuale dev'essere accolta «incondizionatamente» nella comunità cristiana, espressione che può certo prestarsi a equivoci. Ma precisa che «l'accoglienza incondizionata della persona assolutamente non implica in nessun modo l'approvazione di tutti i suoi atti», che la «differenza sessuale fra un uomo e una donna è l'elemento fondamentale» perché si possa parlare di matrimonio, il quale - per essere conforme a quanto la Chiesa insegna - dev'essere caratterizzato da «unità, indissolubilità, fedeltà e apertura alla vita».
Fin qui, dunque, tutto bene. Si può discutere l'accostamento pastorale che consiglia a chi si senta fortemente attratto da una persona dello stesso sesso di mantenere con questa persona un'«amicizia» la quale, senza negare la presenza di un'«attrazione sessuale», «scelga di non cedere» a tale attrazione. Il Consiglio «Famiglia e società» spiega che, in fondo, questa «amicizia casta» è la stessa che si può consigliare a chi si senta attratto da una persona dell'altro sesso che non è il suo legittimo coniuge. Si possono condividere le considerazioni sul fatto che la nostra società oggi non concepisce più un'amicizia separata dalla sessualità, e che quanto oggi sembra ambiguo in altre epoche era normale e permetteva di coltivare relazioni amicali durature che non si trasformavano in relazioni sessuali. Sul piano prudenziale, però - con tutto il rispetto per gli illustri esperti laici e professori universitari che fanno parte insieme con i vescovi del Consiglio «Famiglia e società» -, ci si può chiedere se il consiglio di mantenere una frequentazione e un'amicizia con una persona nei cui confronti si provi un'attrazione illecita, resistendo strenuamente a questa attrazione, sia oggi realistico. La maggioranza dei confessori probabilmente offre consigli diversi.
Quello però che mi turba di più nel documento «Proseguiamo il dialogo!» - e che ha indotto probabilmente il Consiglio permanente della CEF, pur senza sconfessare apertamente il Consiglio «Famiglia e società», a intervenire - è l'aspetto, per così dire, politico. Il documento è la presa d'atto di una sconfitta, e invita i cattolici a dare «prova di maturità democratica, accettando senza violenza che il proprio punto di vista non abbia prevalso». Tutto il tono del testo è quello di un mesto invito a ripiegare le bandiere, tornare a casa e accettare sportivamente la sconfitta aprendo una stagione di testimonianza silenziosa che tace e si limita a predicare con l'esempio, prova di «maturità spirituale». Operando, anzi, per la riconciliazione, la «coesione nazionale» e l'unità fra cattolici che hanno militato su fronti opposti, atteso che «all'interno della comunità cattolica, queste divergenze non mettono in pericolo l'unità ecclesiale». La riconciliazione, aggiunge il documento, potrà essere trovata impegnando i movimenti e le parrocchie su altri temi più condivisi, tra cui si citano i diritti dei Rom e quelli degli esodati (che ci sono anche in Francia). I giovani che considerano questi temi poco importanti dopo essersi entusiasmati per le manifestazioni contro la legge Taubira devono essere «accompagnati» con pazienza a uno studio più completo della dottrina sociale della Chiesa.
È vero che il documento attribuisce le «divergenze» fra cattolici sulla legge Taubira a diversi modi di derivare «conseguenze politiche» dai principi, e non da diversi principi, e contiene una riserva sulle adozioni omosessuali, su cui manifesta una più decisa opposizione. Ma bene ha fatto l'istanza superiore, cioè la presidenza della Conferenza episcopale, a precisare che in quelle «divergenze» qualcuno aveva ragione e qualcuno aveva torto.
Mi permetto però di dire che neppure il comunicato del Consiglio di presidenza della CEF va al cuore del problema, su cui è opportuna in Francia - come altrove - una riflessione ulteriore. Davvero si tratta di accettare la sconfitta, di «comportarsi da cittadini» - come afferma il documento «Proseguiamo il dialogo!» - «assumendo democraticamente la posizione di minoranza»? O la minoranza, anche sconfitta, può legittimamente aspirare a diventare domani maggioranza? Le leggi ingiuste devono essere accettate e contrastate solo con la testimonianza silenziosa, oppure - come ha detto Papa Francesco parlando il 15 giugno proprio a parlamentari francesi - le leggi possono anche essere abrogate? E, se ci si limita alla testimonianza silenziosa o si parla d'altro, come creare un clima in cui le leggi ingiuste possano essere cambiate?
Qualcuno ha visto nel documento «Proseguiamo il dialogo!» un ennesimo esempio della deriva omosessualista in certi settori della Chiesa. Mi sembra un'esagerazione: sia pure - per riprendere l'espressione di un vescovo siciliano di cui «La Nuova Bussola Quotidiana» si è recentemente occupata - «sussurrando» la verità piuttosto che proclamandola con vigore, il documento riafferma sul piano strettamente morale i principi fondamentali del Catechismo. Sul piano politico, invece, mi sembra di scorgere nel testo una grande stanchezza. I vescovi e gli esperti del Consiglio «Famiglia e società» si chiedono se davvero «essere cattolici richieda essere sempre "contro" riforme presentate da altri come un progresso», se non si rischi di dare l'impressione di volere «imporre la fede o un punto di vista religioso».
S'insinuano qui precisamente i rischi denunciati dal cardinale Burke in occasione del convegno romano per la «Giornata dell'Evangelium vitae» il 15 giugno. Ci si lascia intimidire dalla critica secondo cui i cattolici non sposeranno persone dello stesso sesso ma non possono impedire di farlo ai non cattolici, anziché rispondere che qui sono in gioco principi di diritto naturale che la ragione può e deve riconoscere a prescindere da qualunque opzione religiosa. Peggio ancora, ci si lascia intrappolare dal mito del progresso irreversibile e ineludibile, per cui si pubblica stancamente qualche documento «sussurrato» per amor di firma, ma in fondo si rimane convinti che la sconfitta è inevitabile e certa, e che tanto vale accettarla «democraticamente» per evitare di farsi dare dai media anche dei cattivi perdenti.
Se non si superano queste due autentiche superstizioni che la propaganda laicista insinua anche nei «buoni» - talora persino nei vescovi - ogni sconfitta prepara la sconfitta seguente. Serve a poco indicare come prossima fermata l'eutanasia, se si pensa che anche lì i cattolici non potranno «imporre un punto di vista religioso» ai non credenti - quasi che la difesa della vita umana valesse solo per chi crede e non fosse anch'essa, com'è, un'esigenza della legge naturale - né, alla fine, presentarsi come quelli che sono sempre «"contro" riforme presentate da altri come un progresso».
In un bel discorso del 7 giugno agli studenti dei Gesuiti, Papa Francesco ha invitato alla virtù dimenticata della «magnanimità», che spinge alle cose grandi e a combattere battaglie apparentemente impossibili. Dirottare le proprie energie dalle battaglie difficili per la vita e per la famiglia ad altre - come quelle sui Rom o gli esodati - che riscuotono il facile applauso dei media corrisponde alla tentazione di non essere scomodi, di compiacere il mondo, di farsi applaudire anziché criticare dai poteri forti che controllano l'opinione. È la tentazione della «mondanità spirituale» di cui parla spesso il Pontefice. Chi è magnanimo, ha detto il Papa il 7 giugno, «non ha paura di andare controcorrente, anche se non è facile». Combatte anche le battaglie impossibili, perché sa che nulla è impossibile a Dio.