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CRISI UCRAINA

Non vanifichiamo l'atto di consacrazione

L'atto di consacrazione compiuto il 25 marzo rischia di rimanere un episodio isolato se non capiamo che siamo noi i primi a cui è richiesto di convertirsi, di tornare a Dio. E nel conflitto russo-ucraino c'è bisogno di cambiare prospettiva, uscire dalla logica del nemico e del tifo.

Editoriali 28_03_2022

C’è un rischio molto concreto per noi di vanificare l’atto di consacrazione al Cuore Immacolato di Maria che papa Francesco e vescovi di tutto il mondo hanno compiuto il 25 marzo. Vanificare o perlomeno depotenziare. Perché, come abbiamo avuto modo di spiegare, non venga inteso come un rito magico, l’atto di consacrazione impegna ciascuno di noi alla conversione, esige la nostra disponibilità «a lasciarci riconciliare con Dio», come San Paolo supplica i Corinzi nella lettura che abbiamo ascoltato ieri a Messa. E questo vale a prescindere da quanto l’atto di consacrazione sia esattamente aderente alla richiesta fatta dalla Madonna a Fatima, se manchi questo o quel dettaglio, se sia ancora in tempo oppure no, tutte questioni su cui vedo tanta gente ama disquisire. Perché, Fatima o non Fatima, l’unica risposta alla guerra e ai vari castighi è la nostra conversione: lo abbiamo sentito dallo stesso Gesù nel Vangelo letto l’altra domenica: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13, 5).

Questo ovviamente senza escludere la possibilità che Dio intervenga direttamente aprendo i cuori e le menti di quanti oggi sembrano così entusiasticamente protesi alla guerra. Ma mentre speriamo e preghiamo per questo intervento, anche per noi tutti questa è un’occasione da non perdere. Per questo non possiamo fare a meno di notare come l’atto di consacrazione rischi di restare un episodio isolato, che non incide più di tanto nel nostro cuore e nella nostra mente. Una bella preghiera, un bel momento che magari ci ha fatto anche commuovere, un bel pomeriggio di fede vissuta, ma ora se la sbrighi la Madonna con Suo Figlio, mentre noi torniamo alle nostre occupazioni. In particolare, vedo che torniamo a pensare a quanto accade in Ucraina esattamente come facevamo fino al 25 mattina.

E infatti, sfumati i commenti alla consacrazione, eccoci di nuovo allo scontro tra tifoserie, contro Putin o contro la Nato, per Zelensky o contro Zelensky. Le ragioni dell’uno contro le ragioni dell’altro, o meglio: le ragioni dell’uno ignorando quelle dell’altro. In pratica, come se l’atto di consacrazione non fosse mai avvenuto, non l’avessimo vissuto.

La conversione non è vera se non incide anche nel nostro modo di pensare, nel nostro modo di guardare anche a questa situazione di guerra. Non si tratta di cambiare squadra per cui tifare o diventare equidistanti, tutt’altro. All’inizio di questa guerra, ho già citato ampiamente una riflessione del metropolita Antonij, che descrive quale sia il compito a cui è chiamato un cristiano davanti a una realtà di ingiustizia e violenza; come ci sia chiesto di essere uniti con tutti, «sia con chi ha ragione sia con chi è colpevole», perché Gesù «ha abbracciato tutti con un unico amore».

C’è però un primo, piccolo, passo che indica se ci stiamo muovendo in questa direzione o meno. Se, come abbiamo pregato con l’atto di consacrazione, la radice della guerra è il nostro peccato, il nostro esserci allontanati da Dio, «ignorare Dio, convivere con le nostre falsità», questo riguarda tutti: governo russo, ucraino, Nato, Unione Europea e tutti quanti partecipano a questo “gioco”. Il primo passo è proprio smetterla con il tifo. Nessuno può vantare o pretendere che ci sia qualcuno che abbia la coscienza immacolata. Fa molta impressione in questi giorni vedere come gli uni, per dare ragione a Putin, siano disposti a passare sopra l’aggressione, le distruzioni, i morti e i tre milioni di profughi; e gli altri, pur di condannare Putin, sono pronti a chiudere un occhio sulle atrocità commesse anche dai militari ucraini o addirittura rendono romantiche le gesta del battaglione Azov, di chiara matrice neonazista. Chiudere gli occhi sull’uno o sull’altro vuol dire essere complici della violenza.

Chi vede soltanto le ragioni degli uni, come se il peccato riguardasse soltanto una parte in causa, persevera sulla strada sbagliata. E questo non per dire che tutti hanno pari responsabilità in ogni frangente, ma, come abbiamo già spiegato, sono tanti i fattori da considerare e le ragioni che si scontrano. L’Ucraina giustamente lamenta l’aggressione della Russia e ha diritto a difendersi; ma la Russia giustamente può lamentarsi delle provocazioni della Nato; e i paesi dell’ex Patto di Varsavia hanno tutte le ragioni a temere il nuovo espansionismo russo e chiedere l’ombrello della Nato, e così via.

Ci sono mille ragioni per fare la guerra, una sola per fermarla: la consapevolezza che ogni guerra porta con sé un carico di sofferenza, violenza, distruzione dell’umanità, morte, che chiama a sua volta altra violenza, altra distruzione, altra morte. Non c’è guerra che non provochi maggiori ingiustizie di quelle che si voleva correggere. Lo sappiamo: l’esito della Prima guerra mondiale ha posto le basi per la Seconda; la prima Guerra del Golfo ha portato a una instabilità di tutta la regione – e non solo – che a distanza di oltre trent’anni sta solo peggiorando. E si potrebbe andare avanti all’infinito: non per niente, nei tentativi di andare alle radici del conflitto russo-ucraino in corso, abbiamo letto ricostruzioni storiche che, di guerra in guerra, arrivano fino al XIII secolo.

La storia è un groviglio di torti e ragioni, se ne esce solo cambiando prospettiva, uscendo dalla logica del nemico, dall’illusione che il mondo sarebbe meglio senza questo o quell’uomo, senza questo o quel popolo. Se ne esce anzitutto tornando a Dio, cominciando da noi.