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NON SOLO UCRAINA

Si illude chi spera nella pace preparando la guerra

In momenti di tensione si dice sempre che "se vuoi la pace, prepara la guerra". Ma è sbagliato, l'esperienza dimostra che chi prepara la guerra non ottiene mai la pace, al massimo una tregua. Si deve cambiare atteggiamento e preparare invece la pace. E per i cristiani il modello è quello spiegato dal metropolita Antonij di Suroz.

Editoriali 23_02_2022 English Español

Non sappiamo come andrà a finire la crisi ucraina: se alla fine l’Occidente abbozzerà e accetterà il fatto compiuto di un’Ucraina smembrata lasciando delle sanzioni di facciata, se il presidente russo Putin vorrà davvero arrivare a Kiev come si paventa a Londra e Washington, se la guerra dilagherà in Europa e oltre, se la Russia ritornerà invece nei suoi confini dopo aver ottenuto le assicurazioni desiderate. Non lo sappiamo, e al momento è anche difficile prevederlo. Però dovremmo aver capito quanto sia equivoca e pericolosa la formula “diplomatica” che si ripete come un mantra ogni volta che c’è tensione: si vis pacem para bellum, se vuoi la pace prepara la guerra.

Preparare la guerra è esattamente ciò cui abbiamo assistito in questi mesi, solo per stare alle cronache più recenti; ma la crisi ucraina dura da anni, tra alti e bassi, ed è da anni che si sta preparando la guerra. Da una parte e dall’altra, in un crescendo di provocazioni, esibizione di muscoli, minacce, allarmi. Tutte cose che ovviamente anche noi registriamo, commentiamo e analizziamo, ma non possiamo fermarci qui. Perché ovviamente ognuno ha le sue ragioni, che affondano nella storia, negli interessi strategici, nelle esigenze economiche. Ragioni che vengono amplificate dalla propaganda, che arriva fino a noi sotto forma di tifo: c’è chi vede in Putin il diavolo, e chi vi vede il salvatore, idem con gli Stati Uniti e l’Unione Europea (e spesso invece, i reali interessi restano nascosti).

Ma il fatto è che a forza di preparare la guerra, è fatale che la guerra alla fine arrivi: a bassa o alta intensità, ma arriva. Perché preparare la guerra non è soltanto dotarsi di una forza deterrente che scoraggi eventuali attacchi di male intenzionati. È individuare e considerare l’altro come nemico, e se non lo è farcelo diventare; significa interpretare parole e gesti dell’altro sempre nel senso di cattive intenzioni; significa amplificare eventuali torti subiti perché tutti abbiano chiaro che l’altro è veramente cattivo; e allo stesso tempo sminuire o mettere in dubbio ogni gesto o parola distensiva. Questo significa stare in uno stato di guerra permanente, farlo crescere fino a poter sfociare in guerra aperta. Succede nelle relazioni fra stati così come succede anche nelle relazioni personali.

Preparare la guerra non porta mai alla pace, al massimo a un equilibrio precario, a una tregua armata più o meno lunga. Al tempo della Guerra Fredda si parlava di “equilibrio del terrore”, ovvero una pace tra le superpotenze atomiche – Stati Uniti e Russia - garantita dalle armi nucleari, che ovviamente sconsigliavano una guerra guerreggiata. Si dirà: la Guerra Fredda ha comunque garantito un lungo periodo di pace e prosperità ed evitato una nuova guerra mondiale. Ma non è corretto: non c’è stata guerra combattuta sul suolo europeo, è vero, ma nel mondo nella seconda metà del XX secolo ci sono state numerose e sanguinose guerre “per procura”, in Africa e Asia soprattutto, dove Unione Sovietica e Stati Uniti (e anche la Cina popolare) si sono fronteggiate finanziando e armando le opposte fazioni (senza considerare l’intervento diretto degli Stati Uniti nel Vietnam).

Se si vuole davvero la pace, bisogna preparare la pace, si vis pacem para pacem. Non significa disarmo unilaterale, non significa rinunciare alla deterrenza, o alla difesa dei propri confini e dei propri interessi, al contrario. Ma bisogna agire realmente convinti - come disse papa Pio XII nel famoso radiomessaggio del 24 agosto 1939 - che «nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra». Negli ultimi decenni abbiamo avuto ripetute prove di quanto queste parole siano vere.

Nel corso dei secoli si sono sedimentate storie che costituiscono l’identità dei popoli, i confini sono cambiati più volte dando vita a situazioni difficili e convivenze complicate (basta pensare ai confini settentrionali e orientali dell’Italia per averne un'idea), si sono accumulati torti e ragioni reciproche incise nel DNA delle nazioni. Ogni volta che ci sono tensioni, chi vuole la guerra ha buon gioco nell'agitare qualche particolare della propria storia ed eccitare il risentimento dei suoi. Chi vuole veramente la pace deve anzitutto comprendere le ragioni dell’altro, le esigenze e gli interessi che lo muovono. Se si vuole la pace, si deve cercare di comporre i diversi interessi. In qualche modo è quello che è successo dopo la Seconda guerra mondiale in Europa occidentale, quando i semi di una Unione Europea sono stati gettati proprio creando un’area di comune interesse economico. Non è un compito facile, ma questa è la strada.

Se questo è possibile anche solo usando la ragione, c’è per noi cristiani una comprensione più profonda di questo mistero, uno sguardo alla verità di tutti gli uomini e di tutti i popoli che dobbiamo imparare e testimoniare. E per questo è importante la preghiera. È uno sguardo e un atteggiamento molto ben espresso dalle parole rivolte dal metropolita Antonij di Suroz ai suoi fedeli dopo che i carri armati sovietici, nel 1968, avevano represso nel sangue la “Primavera di Praga”. Parole riportate dalla rivista La Nuova Europa, e di cui citiamo alcuni passaggi (qui il testo integrale):

“Davanti alla nostra coscienza cristiana si leva ancora una volta tremenda, esigente la parola di Dio, o più esattamente la figura di Cristo stesso, che si è fatto uomo, è entrato nel nostro mondo, non ha cercato né gloria né virtù, ma si è fatto fratello degli oppressi e dei peccatori. (…) E qui ci troviamo davanti a un’immagine che facciamo molta fatica a comprendere e ancor di più a mettere in pratica: l’immagine di Colui che ha voluto essere unito sia con chi ha ragione, sia con chi è colpevole, che ha abbracciato tutti con un unico amore, l’amore dei patimenti in croce nei confronti di alcuni, e l’amore gioioso, ma sempre crocifisso, nei confronti di altri.
Ora nelle coscienze di molti campeggia l’immagine dell’ira, e in questa immagine si scelgono alcuni e si escludono altri; nell’esperienza della giustizia, della comprensione e della compassione i cuori umani scelgono alcuni e maledicono altri. Ma questa non è la via di Cristo e neppure la nostra via: la nostra via consiste nello stringere gli uni e gli altri in un unico amore, nella consapevolezza e nell’esperienza dell’orrore; consiste nell’abbracciarli non con comprensione ma con compassione; non con condiscendenza ma con la consapevolezza dell’orrore davanti all’ingiustizia, e della croce davanti alla giustizia.
Spesso si pensa: ma che possiamo fare? (…) Possiamo metterci di fronte al Signore in preghiera, la preghiera di cui parlava lo starec Siluan quando diceva che pregare per il mondo è come versare il sangue.

Non è la facile preghiera che eleviamo nella nostra quiete imperturbabile, ma la preghiera che dà l’assalto al cielo nelle notti insonni, la preghiera che non dà tregua, la preghiera che nasce dall’angoscia della compassione; la preghiera che non ci permette più di vivere del nulla e della futilità; la preghiera che esige da noi che finalmente comprendiamo la profondità della vita anziché trascinarla in modo indegno. (…)”