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INTERVISTA AL VESCOVO CAMISASCA

“Noi tra morte, sconcerto e rinascita: Coronavirus, un richiamo di Dio”

«Dio non è all'origine del male, ma se ne serve per correggerci: il Coronavirus è un suo richiamo e quando sarà finito vivrò la Risurrezione col mio popolo». Il vescovo Camisasca tra video letterari, sgomento e Messe sospese: «Forse c'erano altre soluzioni, ma non abbiamo saputo trovarle. Tutto è precipitato velocemente, però la realtà dell'Eucarestia è condivisa da tutti». «Soffro per il Paese, per la mia Lombardia, per i malati, per i medici. Purtroppo si muore soli». La ripresa? «Sarà difficile e dolorosa, ma vedo una luce nelle famiglie in preghiera».
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-LOMBARDI ABBANDONATI DA GOVERNO
di Ruben Razzante

Attualità 16_03_2020

Fa capolino nelle chat prima di sera: sul divano o con alle spalle la libreria. Parla di letteratura, non di fede. Ma è un’escamotage: «Così parlo di Dio attraverso la letteratura, è un modo implicito per porci delle domande che a volte sono più importanti delle risposte perché stanno dentro la vita quotidiana». E’ la vita del vescovo di Reggio Emilia Massimo Camisasca al tempo del Coronavirus. Anche lui chiuso in casa, come tutti. Al termine della giornata raggiunge i fedeli della Diocesi con un breve video in cui legge poche righe di un libro sempre nuovo. Per fare compagnia a tutti, smarriti.

Come in un Decameron social purgato delle licenze boccaccesche, scorrono nei brani letti da Camisasca l’amicizia in Camus, la bellezza del creato nel Dottor Živago e la Madonna Sistina vista con gli occhi della moglie di Dostoevskij. Il tempo scorre lento come quando nei momenti di inattività forzata si riaffaccia il piacere immutabile della lettura, di cui Camisasca mostra di centellinare con gusto ogni singola e inaspettata parola come si fa a fine serata si fa col doppio malto d’annata. Ma fuori arrivano solo piccole consolazioni. Fuori il Coronavirus impazza e nella sua Reggio Emilia anche in questi giorni ha fatto morti. E’ qui che la Nuova BQ, tra un pagina di Pasternak, una poesia di Alda Merini e un saggio di Borgna, lo ha incontrato.

Come vive un vescovo ai tempi dei Coronavirus?
Vivo con profonda sofferenza. Innanzitutto, perché non mi è possibile celebrare con il mio popolo. Questa è la sofferenza più grande, perché sono convinto che l’Eucaristia sia il dono più importante che Dio abbia fatto all’uomo per il tempo che intercorre tra l’Ascensione e la Seconda Venuta di Cristo. Naturalmente rimane viva l’Eucaristia con i suoi frutti, che sono la fede, la Chiesa, la gioia, l’amicizia e la pace. E poi sofferenza per i malati, per i morti, per i loro famigliari e per la terribile prova cui sono sottoposti i medici e i paramedici. Sofferenza per la prova che tutto il Paese sta vivendo: i lavoratori, le imprese, e l’intera economia.

Tutti ripetono come un mantra: “Ce la faremo”. E’ così?
La ripresa sarà difficile e dolorosa, ma possibile. Vedo le luci: la fede del popolo risalta proprio in questo digiuno eucaristico. So di famiglie che si radunano a pregare; iniziative di educatori saggi che attraverso i social e le nuove tecnologie sono in contatto quotidiano con i loro ragazzi. La fede urge sempre alla creatività. Dobbiamo essere pazienti. Questa emergenza ci ha colti impreparati, ma da più parti vedo sbocciare iniziative lodevoli.

Non è che forse eravamo impreparati perché tutti concentrati sulla salute del corpo?
La crisi Coronavirus ha messo in luce la forte secolarizzazione che stiamo vivendo. Ma non è mai possibile disgiungere la cura del corpo dalla cura dell’anima, sapendo che il corpo è mortale e che verrà trasfigurato oltre la morte. Se noi abbiamo cura del corpo senza cura dell’anima, ci occupiamo di qualcosa che passa. Se abbiamo cura dell’anima, questa ci porta anche ad aver cura dei corpi. La Chiesa ha creato gli ospedali proprio perché ha sentito che non si potevano mai separare corpo e anima.

Ha detto che la sofferenza più grande è non celebrare Messa col suo popolo. Eppure, non si potevano trovare altre soluzioni (leggi qui la via polacca)? Raddoppiare o abbreviare le Messe, per esempio? 
Forse si poteva. Non abbiamo saputo trovarle. Noi vescovi, mi riferisco qui all’Emilia Romagna, ci siamo confrontati molto intensamente per lunghe ore. Non dimentichiamoci però la velocità con cui questa crisi è precipitata: siamo passati da una “semplice influenza” a fermare l’intera nazione. Tutto questo è avvenuto in meno di quindici giorni.

Ma forse non è stato spiegato adeguatamente…
Il succo della mia riflessione è contenuto nella seconda lettera che ho scritto alla mia Chiesa diocesana, nella quale mi sono posto le domande più radicali e ho risposto ad esse. Molti cristiani nel corso della storia – ho scritto in quella lettera – sono morti pur di vivere l’Eucaristia. Penso che questo debba essere chiaro per tutti. Qui però non si trattava di mettere in discussione la propria vita, ma quella degli altri, soprattutto di persone anziane e già segnate dalla malattia. Abbiamo ritenuto perciò che fosse un gesto di carità arrivare alle decisioni che poi abbiamo preso.

Ma i fedeli vivono la lontananza dai sacramenti come una privazione. Bisognerà farsene carico prima o poi…
Vorrei far arrivare questo: San Tommaso dice che nell’Eucarestia ci sono il Sacramento e la realtà. Il sacramento in questi giorni è celebrato dai sacerdoti, ma non è condiviso dai fedeli. Però la realtà dell’Eucarestia è condivisa da tutti: i suoi frutti sono condivisi da tutti. La natura stessa è generata ogni giorno dall’Eucarestia. Crediamo questo.

Che farà non appena sarà finito tutto questo?
Vivere la Risurrezione, cioè partecipare nella fede e nella gioia, con il mio popolo, alla grazia della rinascita. Anche se non coincidesse cronologicamente con la Pasqua.

Quali santi prega in questi giorni?
Soprattutto Maria, la Madre di Dio, Salute degli Infermi e Madre della Chiesa. Con lei san Giuseppe, da cui mi attendo molto e da cui ho sempre ricevuto molto. Poi naturalmente i Santi Patroni della mia Diocesi, e in particolare san Carlo.

E quali preghiere recita?
Prego con la Liturgia del giorno, con la Liturgia delle Ore, con il Santo Rosario. La celebrazione della Santa Messa, anche senza fedeli, mantiene intatto il suo valore. La celebrazione eucaristica, fosse anche di un solo sacerdote, è sempre per tutto il mondo e per tutti gli uomini. Il digiuno eucaristico cui siamo costretti sia dunque l’occasione per prendere coscienza del grande dono che riceviamo ogni volta che partecipiamo alla Messa e ci comunichiamo.

Ci si chiede se questo virus sia un castigo o no. Se cambiamo la parola e chiamiamo purificazione il castigo (che è il suo vero significato) assumerebbe un senso diverso?
Occorre essere molto precisi su questo tema. Nell’Antico Testamento gli autori dei testi sacri hanno letto molte volte gli avvenimenti della storia come castigo diretto di Dio per i peccati del popolo o dei singoli. Gesù ha corretto questa lettura, sia nelle parole rivolte al cieco nato (cf. Gv 9) sia nelle parole a commento della caduta della Torre di Siloe (Lc 13,1-5). Gesù ha chiarito che non c’è un rapporto diretto fra il male subito e la colpa commessa. Nello stesso tempo ha detto: se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo (Lc 13,3.5). In altre parole: Dio non è all’origine del male, ma si serve di esso per la correzione del suo popolo. In questo senso certamente anche il Coronavirus è un richiamo di Dio, a chi crede e a chi non crede, affinché il nostro sguardo e la nostra mente riconoscano Dio, il fine trascendente della nostra vita, ciò che è essenziale e ciò che è passeggero.

I cappellani faticano a svolgere il loro compito: i malati muoiono soli e senza famigliari. Che cosa prova di fronte a questo un vescovo che vive in una zona ad alta densità di contagio e di morte?
Ho chiesto a tutti i cappellani di essere il più possibile presenti, compatibilmente con le attenzioni richieste dalla malattia infettiva e dalle sale di terapia intensiva. Poter avere qualcuno che ti tiene la mano e che prega per te e con te nel momento del passaggio a Dio, è il supremo desiderio di ogni persona cosciente. Purtroppo, può esserci chiesto di morire soli.

Da lombardo, che cosa prova a vedere la sua terra ridotta in questo modo?
Nell’estremo dolore ho visto una Regione dotata di grande spirito e di grandi attrezzature sanitarie. Il lavoro svolto dalla Regione nei decenni passati ha creato una realtà all’avanguardia sotto l’aspetto tecnologico e sociale.

Ha paura di essere contagiato? Se fosse contagiato come l’affronterebbe?
Non ho paura. Naturalmente ho timore, ma se fossi contagiato resterei in casa, come sto già facendo. A meno che la malattia richiedesse un ricovero.

La pandemia ci sta aprendo a una nuova sensazione di costrizione fisica. Ci sentiamo prigionieri. C’è quasi un vago sentore di fine del mondo che disorienta.
Il senso di insicurezza e disorientamento che molti vivono, non senza ragione, in questi ultimi anni, hanno fatto pensare a taluni alla “fine del mondo”. Anche qui dobbiamo essere chiari. La fine della storia coinciderà con la Venuta di Cristo. Nessun evento può farci pensare all’imminenza o alla lontananza di tale Venuta. Dobbiamo essere sempre pronti.