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il presidente

Nigeria tra petrolio e jihadisti: comincia l'era di Tinubu

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Bola Tinubu entra oggi in carica come 17esimo presidente della Nigeria. Accusato di corruzione e traffici illegali dovrà affrontare il problema che nessuno dei suoi predecessori ha voluto affrontare: il petrolio la cui estrazione sta notevolmente diminuendo nel Paese. Il nodo dei territori infestati dai jihadisti. 

Esteri 29_05_2023

Bola Tinubu è il 17° presidente della Nigeria, il quinto da quando nel 1999 il paese si è lasciato alle spalle 30 anni di colpi di stato militari e di dittature. Eletto il 25 febbraio insieme al vice presidente da lui scelto, Kashim Shettima, ha assunto la carica ufficialmente il 29 maggio, dopo mesi di azioni legali da parte dei candidati sconfitti che fino all’ultimo hanno contestato l’esito del voto denunciando irregolarità e brogli. Tinubu ha 71 anni, è miliardario. Accusato di corruzione e traffici illegali, in particolare di droga, si difende dicendo di aver investito bene i suoi risparmi. Non che gli altri principali candidati alla presidenza, Atiku Abubakar e Peter Obi, fossero modelli di trasparenza. D’altra parte la corruzione in Nigeria pervade tutti gli ambiti della vita economica, politica e sociale, è praticata a tutti i livelli, tanto che è diventato comune dire che ormai è “uno stile di vita”.

Il soprannome di Tinubu è “Il Padrino di Lagos”, meritato per il sistema clientelare, familistico con cui esercita il suo potere nel sud ovest del paese e ha governato per molti anni Lagos, l’ex capitale, che con 21 milioni di abitanti è la città più grande della Nigeria. Adesso dovrà provare a porre rimedio alla situazione che lui stesso, insieme a tanti altri leader politici, ha contribuito a creare: un paese impoverito, in preda alla violenza, diviso più che mai lungo linee etniche e religiose.

La Nigeria è il primo produttore africano di petrolio e, con un Prodotto interno lordo di 504 miliardi di dollari, è la prima economia del continente (precede Egitto e Sudafrica). Il Pil è aumentato del 3,4% nel 2021 e del 3,1% nel 2022, tuttavia 96 milioni di nigeriani sono sotto la soglia di povertà, nel 2022 l’inflazione è salita al 22%, con incrementi dal 26 al 41% per quel che riguarda diversi prodotti di uso comune, la disoccupazione ha raggiunto il 33%. Il debito pubblico nel 2023 potrebbe superare i 172 miliardi di dollari. Il paese rischia di fare default, come è già successo al Ghana e allo Zambia. Per evitarlo negli ultimi anni il governo è ricorso a ripetuti prestiti da parte di Banca Mondiale e Fmi, il più recente dei quali pari a cinque miliardi di dollari.

La produzione di petrolio diminuisce da oltre dieci anni: dai 29 milioni di barili estratti al giorno nel 2011 è scesa a 14 milioni. L’attività estrattiva risente degli insufficienti investimenti nel settore e dei frequenti atti di sabotaggio delle strutture. Inoltre quantità enormi di greggio vengono rubate. Nel primo trimestre del 2022, ad esempio, solo 132 dei 141 milioni di barili estratti ha raggiunto i terminali da cui il petrolio viene esportato. Nove milioni di barili sono stati rubati. Per di più, le quattro raffinerie del paese sono da anni mal funzionanti, per incuria, e quindi i nigeriani vendono petrolio, ma acquistano all’estero la maggior parte del carburante di cui hanno bisogno. Per rendere i prodotti petroliferi importati accessibili alla popolazione il governo interviene con sussidi che però incidono pesantemente sul bilancio statale, a scapito di investimenti indispensabili in infrastrutture e servizi. D’altra parte ogni aumento del prezzo della benzina fa salire il prezzo anche di generi di prima necessità.

Questo è uno dei problemi che Tinubu dovrà risolvere, che nessuno dei suoi predecessori ha osato affrontare. In suo aiuto arriva la notizia che il miliardario nigeriano Aliko Dangote, l’africano più ricco, ha deciso di costruire una raffineria, la più grande del mondo nel suo genere, in grado di raffinare 650.000 barili di petrolio al giorno, che dovrebbe consentire di soddisfare il fabbisogno energetico nazionale e di esportare combustibili. Il governo contribuirà alle spese per il 20%. L’impianto dovrebbe entrare in funzione nel 2024.

Garantire condizioni di sicurezza è un obiettivo improrogabile quanto risanare l’economica. Il passaggio alla democrazia, all’inizio del secolo, ha coinciso con l’acuirsi delle divisioni che caratterizzano la Nigeria: metà, il nord, musulmano, e metà, il sud, cristiano; nel nord povertà, al sud gli immensi giacimenti di petrolio; al nord etnie di pastori, al sud etnie di agricoltori, in perenne conflitto nella Middle Belt, i territori centrali in cui sono costrette a convivere. Il nord est è infestato da due gruppi jihadisti tra i più pericolosi: Boko Haram, affiliato ad al Qaeda, e Iswap, che nel 2016 ha giurato fedeltà all’Isis. Nel sud est sono rinate, violente, le istanze separatiste che tra il 1967 e il 1970 hanno dato origine a una delle guerre civili più sanguinose dell’Africa indipendente, la guerra del Biafra. Ma la violenza domina pressoché incontrastata ovunque. Negli ultimi cinque anni si sono moltiplicate le bande armate che percorrono il paese a bordo di motociclette seminando il terrore. Il crimine più frequente è diventato il sequestro a scopo di estorsione. I malviventi non prendono più di mira solo persone benestanti per chiedere riscatti milionari, bensì gente comune, in grado di pagare poche decine di migliaia di dollari e anche solo alcune migliaia o centinaia.

La Nigeria è il paese africano con più abitanti: 214 milioni, un africano su sette è nigeriano. Anche solo per questo una sua crisi, inevitabile se non si porrà rimedio, avrebbe ripercussioni economiche e sociali gravissime, di portata continentale e più ancora. La sua stabilità è essenziale, non ultimo, per la realizzazione di un progetto che ci riguarda da vicino. Lo scorso settembre Nigeria, Marocco e ECOWAS (la comunità economica dell’Africa occidentale) hanno firmato un accordo per la costruzione di un oleodotto lungo 6.000 chilometri che attraverserà 13 stati africani e trasporterà il petrolio nigeriano in Marocco, dove si collegherà al Maghreb Europe Gas Pipeline e alla rete di distribuzione europea. Costerà 25 miliardi di dollari e ci vorranno 25 anni per completarlo.