Nigeria e Sahel, il jihad continua a uccidere cristiani
Lawan Andimi, pastore protestante giustiziato dall'Iswap (lo Stato Islamico in Nigeria), va ad aggiungersi all'ormai lunga lista di cristiani assassinati come rappresaglia per la morte del "Califfo" Al Baghdadi. In Nigeria il terrorismo continua. E nel Sahel addirittura si espande.
NIGERIA: INTERVISTA A DON JOSEPH FIDELIS di Lorenza Formicola
L’Iswap, il gruppo jihadista affiliato all’Isis nato nel 2016 dalla spaccatura di Boko Haram, il 22 dicembre aveva annunciato di voler vendicare la morte del suo “Califfo”, Abu Bakr al-Baghdadi, avvenuta in Siria a fine ottobre, e sta mantenendo la promessa. Il 26 dicembre, come è noto, lo ha fatto uccidendo 11 prigionieri cristiani, uno a colpi di arma da fuoco, gli altri decapitati, e diffondendo poi il video dell’esecuzione. Anche l’uccisione del reverendo Lawan Andimi, di cui si è da poco avuta notizia, è opera dell’Iswap.
Il Pastore era stato rapito il 3 gennaio a Michika, nell’Adamawa, lo Stato nord orientale della Nigeria che insieme al Borno e allo Yobe fino al 2015 ha vissuto sotto la minaccia del jihad. Un convoglio di combattenti era arrivato di notte nella città, che si trova vicino al confine con il Camerun, creando il panico tra la popolazione. Secondo il capo tradizionale Stephen Maduwa, l’intenzione dei jihadisti era di rubare del cibo e altri beni. L’intervento tempestivo dell’esercito li aveva messi in fuga costringendoli ad abbandonare parte della refurtiva, ma avevano preso e portato via il reverendo Lawan. Alcuni giorni dopo era stato diffuso un breve video nel quale il Pastore, ripreso con alle spalle la nera bandiera dei jihadisti, si rivolgeva ai colleghi e in particolare al reverendo Joel Bill, presidente della Christian Association of Nigeria di cui era membro, chiedendo di intercedere presso il governatore dello stato Umanru Jibrilla e altre autorità affinché cercassero di ottenere la sua liberazione. Si era detto fiducioso di poter tornare a casa perché i suoi rapitori erano gentili con lui e non gli facevano mancare niente: “per grazia di Dio, rivedrò mia moglie, i miei figli e i miei colleghi; se non sarà così – aveva concluso – sia fatta la volontà di Dio. Colleghi e amici non piangete per me, non vi preoccupate, ringraziate Dio sempre. Io non mi perdo d’animo perché tutto è nelle sue mani e Dio che li induce a trattarmi bene continuerà a farlo”.
Invece il 20 gennaio è stato ucciso, decapitato insieme a un soldato dell’esercito nigeriano, e il video della loro esecuzione è stato recapitato nel pomeriggio del giorno successivo al giornalista Ahmad Salkida, che segue l’attività di Boko Haram dal 2006, il quale ha diffuso la notizia dopo averla comunicata alla famiglia, alle autorità e alla Chiesa. La Christian Association of Nigeria ha espresso condanna per l’assassinio e ha proclamato tre giorni di preghiera e digiuno “assistiamo – ha dichiarato il suo portavoce – a continui sequestri di persona, estorsioni, omicidi di cristiani e di nigeriani innocenti, una vergogna per il governo che continua a vantarsi di aver sconfitto Boko Haram”. Il comunicato invita i cristiani nigeriani alla calma, ma chiede al presidente Muhammadu Buhari e al governo “un’azione più energica per liberare la Nigeria dalle continue violenze, mettere fine alle uccisioni e alla distruzione di vite umane e di beni”. Il presidente Buhari da parte sua ha condannato l’uccisione, definendo l’esecuzione del reverendo Adimi una deliberata provocazione, e ha rivelato che i rapitori avevano accennato alla possibilità di liberarlo tramite terzi non specificati.
Nel dicembre del 2019 le azioni di Boko Haram si sono intensificate e questo desta allarme. Tuttavia il raggio e la capacità di azione dei jihadisti restano di gran lunga inferiori rispetto agli anni in cui il gruppo armato quasi ogni giorno metteva a segno attacchi e attentati nel Borno, sua roccaforte, e nei due stati confinanti dove aveva persino conquistato e tenuto sotto controllo per mesi vaste aree di territorio e alcune città di discrete dimensioni. Nell’autunno del 2015, meno di un anno dopo l’inizio del suo primo mandato presidenziale, il presidente Buhari aveva dichiarato che il gruppo jihadista era stato “tecnicamente sconfitto”. Qualunque cosa il presidente intendesse dire, Boko Haram continua a essere vivo e attivo, ma la forza militare regionale costituita nell’estate del 2015, guidata dalla Nigeria e a cui partecipano Niger, Camerun, Benin e Ciad, ha ricacciato i suoi militanti nella foresta di Sambisa dove hanno le loro basi storiche, situata nella parte sudoccidentale del Parco nazionale del bacino del lago Ciad.
In altri Stati dell’Africa occidentale, invece, nel 2019 i gruppi armati jihadisti si sono rafforzati anche in regioni dalle quali erano stati estromessi o in cui erano tenuti sotto controllo, grazie soprattutto alla missione militare francese Barkhane e ai caschi blu della missione Onu Minusma. In Niger, Mali e Burkina Faso gli attacchi armati si sono moltiplicati ed estesi a territori prima relativamente sicuri. I gruppi jihadisti più importanti, oltre a Boko Haram, sono il Jnim, Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin, una coalizione di cellule attiva in tutta la regione, l’Isgs, Islamic State in the Greater Sahara, nel nord est del Mali, e Ansarul Islam, operativo nel nord del Burkina Faso. Parlando al Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 4 gennaio, il rappresentante speciale Onu e capo dell’ufficio Onu per l’Africa Occidentale e il Sahel, Mohamed Ibn Chambas, ha detto che l’intera regione sta subendo “un devastante aumento di attacchi jihadisti contro bersagli civili e militari”. Nel 2019 il jihad ha provocato oltre 4.000 morti contro i circa 770 del 2016 e in Niger, Mali e Burkina Faso gli attacchi rispetto al 2016 sono quintuplicati.