Newman: la Chiesa è obbligata a insegnare la verità
Rientrato in patria dopo la terza malattia, John Henry Newman, davanti al degrado e all'apostasia silenziosa dei cristiani, affronta il tema della identità della Chiesa e delle sua fondamenta soprannaturali.
Ripresosi dalla dura prova della “terza malattia” (vedi qui) ed appena rientrato in patria dopo il lungo viaggio nel Mediterraneo, John Henry Newman assiste ad un sermone storico di John Keble, tenuto davanti all’assise universitaria sull’abolizione per decreto di Stato di alcune diocesi anglicane in Irlanda. Professore a Oxford, esponente della High Church, temperamento molto mite e dolce, Keble esercitava un fascino riverente; e forse anche per questo il sermone del 14 luglio 1833, dal titolo piuttosto esplicito On the National Apostasy, causò un vero e proprio terremoto: «Il punto che deve essere veramente preso in considerazione è se, secondo la più fredda valutazione, la liberalità alla moda di questa generazione non sia ascrivibile, in larga misura, allo stesso temperamento che portò volontariamente gli ebrei a un progressivo degradarsi fino a raggiungere il livello degli idolatri pagani. E, se in qualche luogo fosse vero, che tali leggi sono imposte all’Assemblea legislativa dall’opinione pubblica, apostasia è forse una parola troppo forte per descrivere il carattere della Nazione?».
Il sermone di Keble suonava la carica all’inizio del Movimento di Oxford e alla divulgazione dei Tracts for the Times. Non c’era prete di campagna o canonico o vescovo che non si fosse visto recapitare un foglio di quattro pagine, di autori anonimi, che non poteva lasciare indifferenti. I primi tre Tracts furono scritti dalla mano di Newman e la ragione della sua scesa in campo è tutta condensata nell’esordio del primo: «Devo parlare, perché i tempi sono veramente cattivi, eppure nessuno parla contro di essi. Non è forse così? Non stiamo forse a guardarci senza però fare nulla?».
Newman vedeva come pochi altri il grande pericolo che la chiesa anglicana aveva di fronte: un’eccessiva tendenza a ricercare approvazione, popolarità, a non voler scomodare troppo la vita dei fedeli, a corteggiare il mondo. Il primo Tract è una lucida messa in guardia da questa tentazione, uno scossone rivolto ai chierici, perché riscoprano «il fondamento reale sul quale la nostra autorità è costruita: la nostra discendenza apostolica».
Ciò significa che «noi non siamo nati dal sangue, né dal volere della carne, né dal volere dell’uomo, ma da Dio», dallo Spirito che Cristo ha donato agli Apostoli. E gli Apostoli hanno trasmesso quello che hanno ricevuto dal Signore Gesù ai loro successori, e così di seguito. Questa è la successione apostolica; questo è il fondamento dell’autorità che i vescovi, i presbiteri e i diaconi, ciascuno nel proprio ordine, esercitano nella Chiesa. La loro autorità non proviene dal Re o dal Governo, l’esercizio di questa autorità non è soggetta alle leggi dello Stato. Questo dono è ricevuto dall’alto e dev’essere esercitato rispondendo a Colui che l’ha conferito, di fronte a quanti «pensano che il potere risieda nelle proprietà della Chiesa, e sono consapevoli di avere politicamente il potere di confiscarci quei beni».
Anche il secondo Tract è un’attenta e appassionata difesa delle origini soprannaturali della Chiesa, “autorizzata” alla propria missione da Dio stesso e non da poteri terreni. A ben vedere, la Chiesa non è solo autorizzata, ma obbligata ad insegnare la verità, condannare l’errore, mettere a disposizione delle anime i mezzi della salvezza. Il primo Tract aveva inevitabilmente sollevato perplessità e opposizioni; al suo anonimo estensore veniva rivolta una critica che, a quanto pare, è sempreverde, perlomeno nel giardino di chi pensa alla vita cristiana come una vita di quiete, attenta a scansare ogni pericolo intravisto all’orizzonte: la Chiesa non deve interessarsi delle decisioni politiche, perché ha una missione spirituale. Gesù stesso ha detto: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18, 36).
«È vero che i semplici affari di questo mondo non dovrebbero coinvolgere un chierico – replica Newman; ma è assurdo affermare che gli affari di questo mondo non dovrebbero in alcun modo impegnare la sua attenzione. Se così fosse, questo mondo non sarebbe una preparazione per un altro mondo. Dovremmo parlare quando i singoli peccano, e non quando lo fa una nazione, che altro non è che un insieme di individui? Dobbiamo parlare ai poveri, ma non ai ricchi e ai potenti? A vuoto San Giacomo ci ha messo in guardia dall’avere fede in Nostro Signore Gesù Cristo assecondando preferenze personali. Invano il Profeta ci trasmette la parola del Signore, per la quale se la sentinella d’Israele non parla per distogliere il malvagio dalla sua condotta, del suo sangue sarà chiesto conto alla sentinella».
Non si tratta di occuparsi delle cose del mondo o di entrare in politica: ci sono scelte pubbliche che hanno ricadute sulla salute eterna delle persone o che, come nel caso della ridefinizione delle diocesi anglicane in Irlanda, non riconoscono più la Chiesa come soggetto autonomo e la inglobano come “libera Chiesa in libero Stato”. Con un’enfasi chiaramente tutta posta in quell’ “in”. Newman respinge l’accusa al mittente: «Quando la Nazione interferisce con i diritti ed i possessi della Chiesa» c’è ben poco da lamentarsi che «la Chiesa interferisca con la Nazione».
La Chiesa deve vivere la sua missione primaria di rendere culto a Dio, di evangelizzare i popoli, di generarli nella vita della grazia, e infine di organizzarsi affinché tutto questo possa di fatto realizzarsi. La ragione ultima di questo diritto/dovere è piuttosto semplice: la volontà di Dio. Una ragione che trova tutti più o meno d’accordo, ma che poi diventa decisamente più sfumata, fino ad essere irriconoscibile, quando si va nel concreto. Perché nel concreto si tratta sempre di dover lottare contro il (pre)potente di turno, e dunque andare incontro a tutta una serie di guai: «Quando gli uomini dicono, come talora fanno, che opponendoci ci troveremmo di fronte a difficoltà tecniche anziché accogliere grandi e ampi benefici, che risulterebbero dai loro provvedimenti, vorrei chiedere loro […] se questo non significhi essere saggi più di quanto è scritto, se non significhi compiere il male perché ne possa venire un bene. Non conosciamo gli effetti che seguiranno alcune modifiche; ma possiamo pronunciarci sul fatto che i mezzi con cui si propone di raggiungerli sono senza precedenti e irrispettosi della Chiesa».
Newman tocca un punto fondamentale. È ormai norma che i cristiani depongano le armi di fronte alla semplice prospettiva di poter perdere qualche cosa, di non poter trarre il “bene” che invece si potrebbe conseguire se evitiamo di opporci al male. Può essere per pavidità, ma può anche essere il fuorviante ragionamento di chi ritiene di sapere già come andranno le cose. Il che significa escludere nei fatti che le vicende degli uomini siano condotte da molte variabili, che stanno nelle mani della Provvidenza di Dio e di lei sola.
È la fallacia fondamentale che il filosofo John Finnis ha contestato a quanti mettono in discussione gli assoluti morali, con la pretesa che sempre si debbano soppesare tutti gli effetti negativi e positivi implicati in un’azione. Ma questo significa non solo eccedere le capacità della ragione dell’uomo, ma ancor più «ridurre la moralità a un ragionare pseudo-tecnico in ordine al perseguimento di obiettivi definiti non già dalla ragione […], ma dai sentimenti, i quali restringono l’orizzonte della deliberazione onde creare l’illusione di poter misurare ciò che è in realtà incommensurabile». Al contrario, il rispetto degli assoluti morali, o nel caso in questione, il rispetto della fondazione divina della Chiesa, «significa collaborare con Dio stesso, il quale ha conoscenza pratica di tutto e senza limiti. Cooperare in questo modo con Dio significa, a sua volta, “tener conto di tutto” […], “nell’unico modo che ci sia possibile”» (Gli assoluti morali, 30-31).
Newman non vede che una strada: «resistendo strenuamente, riflettendo e provvedendo contro il peggio, possiamo ora contrastare i veri pericoli che temiamo. Prepararsi per la persecuzione può essere il modo per scongiurarla».