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Newman e la difesa dell'apologetica

L'apologetica è fondamentale per poter dare assenso alla fede, perché permette di far convergere le probabilità in una certezza. Piuttosto è allarmante l'attuale rifiuto dell'apologetica, segno che la fede è ormai evaporata in un deismo razionalista o ridotta a strumento di mero benessere.

Catechismo 26_02_2023

L’apologetica è in via d’estinzione. Nel nostro mondo cattolico pare non ve ne sia più bisogno: prima assorbita dalla Teologia fondamentale e poi sostanzialmente espulsa anche da quella. Ad alcuni, essa appare superflua, dal momento che la ragione umana non è ritenuta implicata nell’atto di fede. Si può credere addirittura senza che sia necessario precisare in chi ed in cosa: l’importante è credere. In ogni caso, si ha sete di testimonianze, non di idee. Persino la catechesi, che è per definizione l’istruzione sui contenuti della fede, ormai è teatro di testimoni di vario genere, non di contenuti da offrire alla riflessione dei cristiani.

In altri casi, ci si vergogna dell’apologetica. Essa sembra l’ultimo cimelio decisamente retrò di un’epoca nella quale i cristiani pensavano a difendersi, anziché aprirsi al mondo, al diverso. Cristiani che assumevano anche toni polemici, evidentemente perché non avevano ancora colto quella che sembra essere l’unica regola aurea evangelica (anche se nel Vangelo non compare): parlare solo di ciò che ci unisce e tacere di ciò che ci divide.

Eppure non c’è epoca della storia della Chiesa che non abbia visto fiorire un’importante produzione di opere apologetiche, a partire dalle due Apologie di San Giustino, i vari trattati “adversus”, gli scritti controversistici  e le più recenti compilazioni di veri e propri dizionari di apologetica. Semplicemente perché in ogni epoca i cristiani hanno dovuto affrontare l’ostilità, le calunnie, gli errori e, più serenamente, hanno voluto offrire ai loro contemporanei le ragioni della propria speranza. Perché la verità è il bene dell’intelligenza, analogamente a come la virtù è il bene della volontà.

Ma che rapporto c’è tra le ragioni apologetiche e l’atto di fede? Prima di rispondere a questa domanda, bisogna cercare di capire che tipo di conoscenza sia quella religiosa, che rapporto ci sia tra gli atti di ragione e gli atti di fede. Un grande aiuto in questo senso ci viene da La grammatica dell’assenso, di J. H. Newman (Essay in Aid of a Grammar of Assent, 1870), nel quale si mostra come sia possibile che l’uomo, nell’ambito della religione, possa assentire con certezza a qualcosa che non è frutto di inferenza logico-dimostrativa, ma che non per questo dev’essere derubricato a opinione o conoscenza solo probabile. Newman aveva conosciuto l’invasione dell’illuminismo razionalista nell’ambito della fede nel contatto con i cosiddetti “noetici”, presenti nell’Università di Oxford.

Egli anticipa così il recupero di quella “ragione allargata” che fu molto cara a Benedetto XVI, mediante una rivalutazione dell’assenso reale di fronte all’assolutizzazione dell’assenso nozionale,  che è tutto il contrario dell’approdo ad una posizione irrazionalista della fede. Ricordiamo che per Newman il principio dogmatico, secondo il quale dinanzi a noi sono posti chiaramente la verità e l’errore, significa che la nostra intelligenza è chiamata a sottomettersi alla verità e a venerarla, così come a respingere l’errore. Il principio dogmatico è l’esatto contrario del principio relativista, che egli riassume così in The Fluctuations of Human Opinions: «Non possiamo andare oltre un certo grado di probabilità a proposito di alcunché».

Newman parte da una constatazione necessaria, soprattutto dopo l’avvento del criticismo kantiano, e cioè che «l’assenso in base a ragionamenti non dimostrativi è un atto troppo universalmente riconosciuto per essere irrazionale». La gran parte delle verità in base alle quali noi agiamo, prendiamo decisioni, ci orientiamo, eccedono sovrabbondantemente l’ambito della pura logica e dell’assenso nozionale. Bene. Resta però la questione: come si può avere certezza in un ambito che non è quello delle proposizione universali e astratte? Come possiamo avere una conoscenza certa della verità nel concreto? Perché la religione ha a che fare con il concreto, ma, nel contempo, non si accontenta della probabilità, ma pretende un assenso certo.

La soluzione di Newman segue in qualche modo il metodo di Agatha Christie: tre indizi fanno una prova. Ossia: una conoscenza probabile resta tale, ma una convergenza di probabilità danno una certezza; o, come scrive Newman, «una prova è il limite delle probabilità convergenti». Si giudicano gli elementi di probabilità convergenti e si conclude dando il proprio assenso certo. Vi è certezza anche al di fuori dell’evidenza scientifica.

È chiaro che quanto per una persona può essere sufficiente a muovere verso l’adesione certa, potrebbe non esserlo per l’altro. Questo però non è soggettivismo, ma riconoscimento della dimensione morale della conoscenza, per cui l’uomo è chiamato in prima persona a cercare, soppesare, correggere. Newman esce dal falso dilemma per cui al di fuori della verità scientifica, vi sarebbe solo la probabilità, che porta con sé l’incertezza. Al contrario, egli afferma che non la singola probabilità, ma la convergenza delle probabilità è in grado di portare alla certezza.

È qui che l’apologetica continua ad avere e sempre avrà la sua importanza. Essa cioè fornisce svariati elementi di natura storica, biblica, filosofica, scientifica, morale, etc., in base ai quali la persona può percepire quella convergenza che vale una prova. L’assolutezza dell’assenso della fede non respinge ma abbraccia la verifica delle ragioni su cui si fonda questo assenso. E lo fa sia nell’ambito dei cosiddetti preambula fidei, che per Newman equivale a porre le basi della religione naturale, in tutta la sua estensione, e non solamente nell’ambito delle prove dell’esistenza di Dio; sia nella sfera dei motivi di credibilità della Rivelazione cristiana. Questa verifica diviene particolarmente importante nel momento in cui sorgono dei dubbi, oppure si deve rispondere al bisogno di rendere ragione ad altri della propria fede.

Queste ragioni apologetiche Newman le presenta nell’ultimo capitolo della Grammatica, e non è possibile ripercorrerle in questa sede. Quello che però rimane di estrema importanza è che l’insegnamento più maturo di Newman, i cui temi fondamentali erano già presenti sia in alcuni sermoni universitari che, successivamente, nei discorsi a Birmingham, riesce a comunicare come l’assenso della fede conosca e una dimensione assolutamente personale, esistenziale, incomunicabile, e delle ragioni fondate comunicabili, capaci di rendere ancora più certa un’adesione o di contribuire all’assenso di altri.

L’apologetica non potrà mai venir meno, almeno finché vi sarà un uomo che cerca la verità su Dio, perché la sua necessità si radica sul modo di conoscere dell’uomo. È invece un segnale d’allarme pensare di poterla liquidare o ritenerla non più adatta per il nostro tempo; significa che la fede è ormai evaporata in un deismo razionalista o ridotta a strumento di mero benessere.