Nella sofferenza si alzi lo sguardo alla Patria celeste
La terra è e sarà sempre terra d'esilio, luogo di passaggio, segnato da un’amarezza provvidenziale, in definitiva la mancanza dell’oggetto amato. Nella sofferenza si può comprendere quella vissuta da Gesù, che ci dà pace, ci salva, facendo elevare lo sguardo a Dio.
Man mano che la sofferenza aumenta e diviene l'incontro più consueto delle nostre giornate, il rischio della delusione, dell'avvilimento, della ribellione si fa più prossimo. Di fronte alla croce, giungiamo sempre impreparati: avvinghiati a questo mondo, non riusciamo a vivere nella libertà di chi tende solamente alla Patria celeste e con lo sguardo di chi vede sempre la mano paterna di Dio dietro ogni cosa. Un aiuto ci viene da Dom Augustin Guillerand (1877-1945), parroco a Ruages e Limon (Francia), entrato nel 1916 alla certosa di Valsainte (Svizzera) e dal 1940, fino alla sua morte, chiamato alla Grande Chartreuse.
I testi sono tratti e tradotti da Voix cartusienne (Collections Écrits de Chartreuse, Éditions Sainte-Madeleine, 2022, pp. 17-18; 21-22; 45-46; 55-57).
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Bisogna accettare questo piano divino
La nostra sofferenza non ha nulla che possa inquietarci; essa è condizione praticamente necessaria di quelle anime per le quali la terra è troppo piccola. Manca loro l'aria e soffocano. È l'aspirazione verso Dio di tutte le parti insoddisfatte di sé a tradursi così. Soffriamo molto di questa sofferenza: il Signore non ci rimprovererà mai di ciò. Tuttavia, teniamo questa sofferenza calma e ben regolata. Perché questo Dio verso il quale il nostro cuore tende, ci ama da sempre e per sempre. Non desidera altro che donarsi a noi, e non possiamo fargli piacere più grande che crederlo.
In fondo lo crediamo. Ma noi vogliamo troppo percepire e gustare questa fede. Qui è il pericolo, qui l'errore. Credere a Dio è una cosa, goderlo un'altra. La prima è sempre concessa alla nostra buona volontà; la seconda dipende unicamente da Dio e dal suo beneplacito. La prima è un dono del nostro spirito che facciamo a Dio; la seconda è una comunicazione che Egli fa a noi della sua gioia. Noi dobbiamo e possiamo donare il nostro spirito al suo spirito; ma in questa vita, noi non possiamo partecipare alla sua gioia come vorremmo. Non possiamo che riceverne delle primizie passeggere e degli assaggi, che Egli ci dona di tanto in tanto, come vuole. Dobbiamo accettare questo piano divino, che riserva a un'altra vita il possesso definitivo dell'oggetto amato. La terra è e sarà sempre terra d'esilio, luogo di passaggio, deserto da attraversare, dove uno allestisce la tenda per un momento, per ritirarla ben presto. Le nostre anime lo dimenticano facilmente; esse non camminano con gli occhi abbastanza fissi sulla patria, «là dove sono le vere gioie» (colletta della quarta domenica dopo Pasqua).
Un'amarezza provvidenziale
Noi facciamo l'esperienza della vita e degli uomini e constatiamo che se noi non ci aspettassimo altro che quello che ci dà l'esistenza terrena per soddisfare il nostro desiderio di felicità infinita, sarebbe ben misera cosa e noi saremmo ben lontani dall'essere soddisfatti. È bene aver fatto questa esperienza, averla toccata con mano e sperimentata. Tutto quello che ci possono dire i libri non vale un solo minuto d'esperienza personale. Questi periodi della vita non sono persi: tutto il contrario. Sono tesori per questo tempo e, se si accettano con spirito di fede, per l'eternità. Sono altresì grazie preziose. Ci distaccano: e ciò non è così semplice. Nonostante tante delusioni nella vita, siamo così facili a lasciarci prendere da ciò che passa. Fortunatamente, Dio effonde su tutta questa creazione fugace un'amarezza provvidenziale, che ci allontana da essa, o, meglio ancora, la tiene lontana da noi. Più avanti lo ringrazieremo di queste predilezioni che si possono difficilmente comprendere e apprezzare quaggiù.
Credere è vedere nella luce di Dio
Il futuro non ci appartiene. La vita non è come noi la facciamo; Dio solo ne dirige il corso. Tutto quello che noi possiamo fare è accettare con fiducia questa direzione, che è traboccante d'amore. Non guardiamo troppo a ciò che sono gli uomini, né alle cose o agli avvenimenti. Lo spettacolo è così spesso scoraggiante. Guardiamo a Colui che regola sovranamente tutti questi movimenti e che li fa concorrere ad un piano d'amore infinito. Addentriamoci sempre di più in queste vedute della fede, che sono le uniche intelligenti e vere: sono le vedute stesse di Dio. In tutto quello che fa o permette, Egli non vede e non vuole altro che il suo amore. Facciamo come Lui.
Certo, le apparenze sono sconcertanti. Il mondo è pieno di male e di odio. Come vedere l'amore in manifestazioni così opposte? Non lo si vede: lo si crede. Credere significa vedere nella luce di Dio, fare riferimento a Lui che ci dice: «I vostri occhi, la vostra ragione vedono il male. Ma queste vedute sono superficiali. Il fondo di tutto è l'amore; credete a me che ve lo confermo». La fede richiede un profondo sacrificio; ma vediamo anche che ci dona una sicurezza e una pace che potremmo definire infinite, perché riposano sulla parola stessa di Dio. Abbiamo il segreto profondo della tranquillità cristiana nel mezzo dei più terribili avvenimenti. Gli avvenimenti passano, la parola di Dio è eterna.
Il grande segreto della pace
Non abbiamo perso la pace della nostra anima; solo la superficie è agitata. Ma abbiamo talmente l'abitudine di vivere in superficie, che le agitazioni della superficie ci fanno credere a disturbi profondi. Questi scossoni superficiali sono necessari e benefici: ci insegnano a vivere più in profondità, ci fanno amare, desiderare e ricercare questa grande serenità delle anime che sanno che Dio è tutto, che ama le nostre anime e che le nostre sofferenze e i nostri travagli diventano, per il suo amore, strumenti di unione. In quei momenti, noi impariamo la necessità di vivere uniti a Lui, e comprendiamo che questa unione non si compie a livello sensibile – perché Egli è essenzialmente Spirito – ma nelle profondità della volontà spirituale, che non si vede, non si sente, ma non per questo Egli cessa di essere l'amore sostanziale e vero. Non sorprendiamoci, non sorprendiamoci della malvagità, né di quella altrui né della nostra. Ma vediamo sempre, di fronte a questa malvagità, la Bontà infinita che è venuta a guarirla. Il buon Dio avrebbe potuto volere un'umanità senza la colpa e senza male. Ma non si tratta di quello che avrebbe potuto volere o fare, si tratta di quello che ha voluto e fatto. Il grande segreto della pace risiede nell'accettazione di questa volontà. Ma bisogna impararla questa accettazione, come si imparano tutte le cose quaggiù. I malvagi sono strumenti nelle mani del Maestro amato. Ci mettono di fronte a prove e volontà difficili. La fede non è radicata finché non ha lottato per dire: «Mio Dio, adoro la vostra mano e il vostro amore in quest'uomo che mi fa del male, in questa natura che mi colpisce».
La fede è la luce che scopre Dio sotto il velo delle creature. Bisogna viverla al meglio per vedere Dio attraverso certe creature. Eppure Egli è lì, sempre. Gesù sulla croce non diceva: «Quanto gli uomini sono miseri e malvagi!». Diceva invece: «Padre mio, perdona loro» (Lc 23, 34); e: «Padre mio, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23, 46). La vita cambia completamente quando, in ogni circostanza, specie se crocifiggente, riusciamo a dire: «Padre mio». Eppure è così raro. Di solito si vede la sofferenza, la causa o gli strumenti della sofferenza, i mezzi per toglierla, etc. Quando uno ha sofferto, comincia a comprendere non solo quanto Gesù abbia patito (che è già molto importante), ma come nel proprio dolore lo sguardo ha oltrepassato la sofferenza per non vedere che Colui che essa glorifica; e sa anche quanto è difficile dimenticare sé stessi e giungere a questo supremo dono di sé, che ci ha salvato.