Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Mauro a cura di Ermes Dovico
REPORTAGE

Nella prigione di Sednaya, testimonianza di un cristiano nell'inferno siriano

Reportage dalla prigione di Sednaya, presso Damasco, detta "il mattatoio di esseri umani", durante il regime degli Assad. Intervista a un ex prigioniero, un cristiano ingiustamente incarcerato e liberato solo alla caduta del regime. Un prigioniero relativamente "fortunato" che ha però assistito a orrori indicibili.

Esteri 15_01_2025
Sednaya, le celle abbandonate (foto di Elisa Gestri)

In una giornata mite di sole parto da Damasco con il microbus, come chiamano qui i piccoli pullman da quindici persone, alla volta di Sednaya, la prigione militare simbolo del regime di Assad,  denominata "il mattatoio di esseri umani" e destinata ai nemici del regime e ai prigionieri "speciali".

Il villaggio con lo stesso nome si trova su una collina a circa 20 km dalla Capitale, ed è noto per il convento greco-ortodosso di Nostra Signora di Sednaya, fondato nel 547 dall'imperatore bizantino Giustiniano I in persona, secondo tradizione. Il carcere si trova sulla strada principale, pochi km prima di entrare in paese, sulla destra per chi proviene dalla città. Il toponimo Sednaya  significa in arabo "caccia alle gazzelle", perché pare che la zona fosse la tenuta di caccia dei governatori romani della provincia di Siria. Il nome ha qualcosa di sinistro pensando alle centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini che nella prigione sono stati detenuti, torturati e uccisi dalla sua fondazione nel 1987.

L'8 dicembre scorso la prima operazione su scala nazionale degli uomini di Hayat Tahrir al Sham, dopo aver cacciato Assad, è stata l'apertura delle carceri di tutto il Paese, da Hama a Adra, da Latakia ad, appunto, Sednaya, da dove secondo la Ong Syrian Network for Human Rights sono stati liberati circa 2000 prigionieri, mentre l'Associazione dei familiari dei detenuti a Sednaya parla di circa 4300 persone liberate. Il numero esatto di chi a Sednaya è deceduto, vittima di esecuzioni sommarie, a causa delle torture, degli stupri, per fame o malattia, rimane e rimarrà probabilmente sconosciuto. La gestione della prigione era in mano a diverse forze dell'ordine, dall'esercito alla polizia, ma la parte operativa era riservata a membri della Shabiha, la polizia segreta di Assad, una vera e propria milizia composta per la maggior parte da alawiti che durante gli anni del regime si è macchiata dei più orribili crimini nei confronti
del popolo siriano. Basti pensare che la citata Syrian Network for Human Rights ha stimato che solo 24mila persone su una lista di 136mila scomparse nel nulla sono state rilasciate dalle carceri siriane dopo l'8 dicembre; il destino delle restanti è sconosciuto ma tristemente immaginabile.

Mentre il microbus si inerpica sulla collina incontriamo una manifestazione di soldati dell'esercito di Assad che protestano davanti a una caserma; chiedono venga loro restituita la carta di identità requisita dai nuovi leader della Siria, sostenendo  di non aver fatto nulla di male e di avere il diritto di riavere almeno i documenti, se non il lavoro. Un compagno di viaggio mi assicura che «il 90% di loro verrà accontentato, se si scoprirà che non ha fatto del male». Avvicinandoci alla prigione, ci accoglie un cartellone pubblicitario dell'hotel Sheraton di Sednaya; triste ironia, il cartello ha come sfondo l'edificio carcerario, che comincia ad intravedersi in cima a una collinetta.

Scendo dal pullman davanti all'entrata dipinta con i colori della nuova Siria, dove sono di guardia alcuni uomini di Hayat Tahrir al Sham. Trovo un clima gioviale, disteso; i giovani armati (il più anziano, nonché capo del gruppo, ha trentotto anni) ridono e scherzano tra loro e se non fosse per l'abbigliamento paramilitare e le armi in vista sembrerebbero un gruppo di ragazzi qualunque. Le loro barbe non sono eccessivamente lunghe e il volto è scoperto. Appurato che sono arrivata in pullman, uno di loro si offre di accompagnarmi in moto fino all'edificio, che dista un paio di chilometri dall'ingresso. Qui l'atmosfera comincia a cambiare: l'impatto con l'enorme edificio, già da fuori, si avverte chiaramente. All'ingresso c'è un vecchio taxi, in attesa di alcuni giornalisti della stampa internazionale che sono già dentro.

Assieme al mio giovane Cicerone entro anche io e mi fermo davanti alla porta della prima cella che incontriamo. Senza avere ancora visto nulla mi colpisce l'odore; un vero pugno allo stomaco, indescrivibile. La mia guida mi dice che in ogni cella - quelle che vedo io sono quadrate, a occhio di circa 5 per 5 - potevano essere stipate fino a cento persone raggomitolate su se stesse. Scendiamo anche al piano inferiore, all'ingresso dei famigerati tunnel dove i prigionieri venivano tenuti al buio e sottoposti alle peggiori torture. E qui preferisco riportare le parole di Charbel, che a Sednaya ha passato quattro anni e mezzo.



Incontro Charbel (il nome è di fantasia) nel suo ufficio - liberato all'alba di domenica 8 dicembre, la mattina di martedì 10 è rientrato al lavoro. Quarant'anni, titolare con il fratello di una società di materiali per l'edilizia ereditata dal padre, Charbel proviene da una famiglia cristiana della borghesia di Damasco. Mi accoglie con squisita cortesia; ha un sorriso aperto, è di bell'aspetto, ben vestito e tutto da lui emana energia e determinazione. La sua apparenza contrasta vivamente con gli squallidi luoghi che ho appena visitato. Ci scambiamo i primi convenevoli, parliamo un po' di noi, della situazione in Siria, del passato e del presente del Paese; è difficile entrare nel merito della questione, sembra incredibile che la persona che ho davanti sia mai stata a Sednaya anche solo per far visita a un amico, figuriamoci come detenuto. Infine prendo coraggio e gli chiedo perché mai sia finito laggiù. La risposta ha del surreale. «Nel 2019 la nostra società aveva ricevuto grosse commesse dal governo siriano e dall'ambasciata USA a Beirut - all'epoca avevamo un ufficio anche in Libano. Un nostro competitor, deluso per non essersi aggiudicato quegli affari, mi ha denunciato per spionaggio, adducendo il fatto che il nostro partner francese aveva a sua volta un partner israeliano».

Possibile? Bastava così poco per finire nel carcere più duro di tutta la Siria? «Sfortunatamente il nostro competitor era anche un membro della Shabiha e per lui è stato molto facile denunciarmi. Nel 2019 sono stato chiamato due volte a rapporto dalla polizia segreta, che mi ha chiesto denaro in cambio dell'estinzione del mio file; mi sono rifiutato, così la terza volta, all'inizio del 2020, sono stato trattenuto prima 28, quindi 50 giorni in due posti di polizia diversi. Dopodiché sono stato mandato a Sednaya fino alla liberazione dell'8 dicembre scorso». In quanti eravate in cella? e come venivate trattati? «Siamo stati quasi sempre in quattro, per alcuni periodi in tre. In quanto cristiano venivo trattato bene, decisamente meglio degli altri compagni musulmani. Gli alawiti sono una minoranza e per questo rispettano la minoranza cristiana, mentre odiano i sunniti. Come può immaginare, i favoritismi nei miei confronti mi hanno messo in difficoltà con i miei compagni di cella, che cercavo di aiutare quando potevo. Passavamo il tempo chiacchierando tra noi; ho perfino imparato il Corano a memoria, a forza di sentirlo recitare da loro. Dormivamo per terra, il cibo ci veniva dato in ciotole di plastica. Potevamo lavarci, ma solo con acqua fredda. Una volta al mese ci era permesso rasarci. Le condizioni erano buone, rispetto a come venivano trattati altri prigionieri, torturati e uccisi».

Erano permesse le visite? «Sì, ogni 45 giorni si potevano incontrare i detenuti. Mia madre e i miei fratelli sono venuti a trovarmi regolarmente. Mia moglie, invece, è venuta a trovarmi una volta sola e l'anno scorso mi ha chiesto il divorzio attraverso l'amministrazione del carcere.
Voleva rifarsi una vita ed i tempi di una mia eventuale scarcerazione erano imprevedibili». La disgregazione delle famiglie è un'altra delle terribili conseguenze delle detenzioni arbitrarie nelle carceri siriane. A fronte di familiari che continuano a cercare i loro cari scomparsi anche dopo molti anni, c'è chi non ce la fa ad aspettarne il ritorno. «Mia madre mi portava vestiti, biancheria, oggetti per l'igiene personale che venivano requisiti regolarmente  dagli uomini della Shabiha» continua Charbel. «Le nostre guardie ricevevano un salario di 20 dollari al mese ed arrotondavano rubando ai detenuti. Le visite erano anche un'occasione per chiedere ai familiari denaro per la nostra liberazione. Questo era un vero business all'interno del carcere, gestito da un'amministrazione parallela facente capo alla polizia segreta. A mia madre sono stati chiesti 200mila dollari per liberarmi; ne ha pagati prima 10.000, poi altri 5.000, poi le è stato detto che dato il mio caso "speciale" avrebbe dovuto scrivere direttamente a Bashar al Assad, cosa che ha fatto. Com'era prevedibile, nulla si è mosso».

Mentre parliamo Charbel accende una sigaretta dopo l'altra: il fumo in carcere gli è mancato tantissimo. In un solo mese di libertà le sue dita sono diventate gialle di nicotina, come quelle dei fumatori più inveterati. Azzardo a chiedergli se in carcere abbia mai visto morire qualcuno. «Non visto, ma sentito. Nella cella accanto alla nostra c'era un tale, circa della mia età, che anni prima era già stato in prigione. Liberato, si era rifugiato in Olanda, dove aveva dato incautamente molte interviste televisive denunciando gli abusi subiti nelle carceri di Assad. Anni dopo è stato arrestato all'aeroporto di Beirut, dove era arrivato per vedere la famiglia frattanto rifugiata in Libano, e portato direttamente a Sednaya. Si è ammalato di colera (almeno una volta all'anno scoppiava un'epidemia, io stesso mi sono ammalato varie volte) e curato con una terapia di antibiotici che naturalmente hanno aggravato le sue condizioni. Per tre giorni l'abbiamo sentito gridare per i dolori, mentre le guardie lo prendevano a calci per farlo smettere di lamentarsi; dopo tre giorni di agonia è morto». Charbel, dopo qualche secondo, aggiunge: «Mi creda, quando sono uscito ho dimenticato tutto. Non so come spiegarmi, quel posto ti toglie il cuore dal petto. Non provi più nulla». Gli chiedo se ha notizie dell'uomo che l'ha mandato in carcere ingiustamente. «Sto cercando di rintracciarlo. So che si trova a Homs, e rischia la vita ora che Assad è caduto. Vorrei chiamarlo al telefono e fargli sapere che sono uscito: questa sarà la mia vendetta. Il resto lo lascio a Dio».