Nella morsa della fame e di Al Qaeda
Per le Nazioni Unite in Somalia è emergenza umanitaria. Muoiono sei bimbi al giorno e il terrorismo incombe.
Ma nessuno si aspettava un esodo di questo genere e le agenzie dell'Onu hanno lanciato un appello ai Paesi donatori perché si mobilitino per aiutare chi rischia di morire di fame. «Ma sembra che il nostro appello finora abbia trovato più che altro orecchie sorde», ha detto a Nairobi Mark Bowden, coordinatore delle Nazioni Unite per le azioni umanitarie in Somalia. L'Onu ha dichiarato lo stato di emergenza umanitaria, una condizione che si verifica quando il numero di bambini malnutriti supera il 30% e ne muoiono 2 al giorno su diecimila. Ora la malnutrizione ha raggiunto (e in alcune aree ha superato) il 50%, la concentrazione più alta al mondo, e il numero di bambini fino a 5 anni che si spengono ogni giorno è arrivato a quota 6. «È la crisi umanitaria peggiore in 60 anni - ha aggiunto Bowden - e ha colpito soprattutto due regioni dell'ex colonia italiana: il Bakol e il Basso Shebelle. Più di 3,7 milioni di persone hanno poco o pochissimo da mangiare e oltre 2,8 milioni sono nel sud del Paese».
La mancanza di pioggia per due stagioni consecutive ha impedito di ottenere buoni raccolti e la gente per sopravvivere ha mangiato le sementi. A tutto ciò si è aggiunta le guerra ormai endemica. Le organizzazioni umanitarie qualche anno fa erano state cacciate dalla Somalia dagli shebab, i fondamentalisti islamici legati ad Al Qaeda che le accusavano di voler diffondere la cultura occidentale. Quindi la situazione si era deteriorata sempre più. Ora, vista la gravità raggiunta, gli estremisti, che controllano buona parte del Paese, hanno chiesto il loro rientro. Sono in molti a credere che possa trattarsi di una trappola. «Noi operiamo in Somalia - dice Alfonso, responsabile della comunicazione di Save The Children - ma non posso dire dove per motivi di sicurezza». Gli fa eco a Mogadiscio Ahmed Olad che al telefono, quando gli si chiedono informazioni sulla mancanza di cibo, spiega: «Qui non è arrivato nessuno ad aiutarci ed è comprensibile. Le organizzazioni non governative hanno paura che gli shebab cambino di nuovo opinione e assalgano gli operatori».
Al telefono l'aiutante di Shek Hassan Daher Aweis, uno dei leader di Hizb Islam, gruppo fondamentalista alleato agli shebab, spiega che il capo non può e non vuole dare interviste. «Sta dialogando con le Nazioni Unite per assicurare la sicurezza necessaria agli operatori stranieri che volessero venire in Somalia». Il problema è che nel Paese non operano solo i fondamentalisti e il governo e i suoi alleati. Quello che fa paura sono le gang di banditi, resi ancora più cattivi dalla carestia e dalla fame. Gli stranieri sono definiti «walking dollars», cioè dollari che camminano. Rischiano ogni momento di essere rapiti.
Tra Mogadiscio e Afgoi, una città a 30 chilometri a est della capitale, sono ammassate almeno 100 mila persone che vagano in cerca di cibo e a Dadaab i rifugiati hanno raggiunto quota 400 mila. «È il campo profughi più grande del mondo - ha sottolineato Bowden -. Abbiamo bisogno di aiuto per sistemare e assistere tutti. Negli ultimi mesi in Somalia sono morte di fame decine di migliaia di persone, tra cui molti bambini». Dadaab è abbastanza vicino alla frontiera somala e ogni giorno arrivano dalla Somalia dalle mille alle millecinquecento persone. Dopo lunghi negoziati il governo keniota ha permesso l'apertura di un nuovo campo che era già pronto da tempo ma inutilizzato perché Nairobi non aveva dato le autorizzazioni necessarie.
La carestia odierna ricorda quella dell'autunno 1992. Le immagini dei campi profughi, della gente che moriva senza cibo e senza acqua, bambini con la pancia gonfia di niente, riprese dalle televisioni di tutto il mondo, colpirono come un pugno nello stomaco l'opinione pubblica. Nel dicembre di quell'anno gli Stati Uniti e una trentina di altri Paesi decisero di intervenire inviando contingenti militari. Avrebbero dovuto essere di pace, invece furono impegnati in una feroce e cruenta guerra. Fuggirono lasciando una Somalia che da allora è sprofondata sempre più nel caos, nella disgrazia e nella disperazione.
Da Corriere della Sera del 21 luglio 2011