RIEDUCARSI ALLA BELLEZZA /6
Nel Rinascimento i germi del laicismo moderno
L’uomo si sente ancora creatura di Dio, ma si percepisce totalmente artefice del suo destino. E la cultura diventa sempre più profana.
Cultura
09_07_2011
Forse è l’umanista Coluccio Salutati (1331-1406) a descrivere meglio in un’espressione sintetica una delle più grandi novità del Rinascimento rispetto al Medioevo, ovvero una mutata percezione religiosa, in un certo senso in parte eterodossa, dettata dalla convinzione che i meriti umani possano portare l’uomo alla salvezza. Sua è, infatti, l’espressione: «Del Paradiso è degno l’uomo che ha compiuto grandi azioni in questa terra». L’intellettuale di inizio Quattrocento ha sostituito al merito cristiano l’idea di merito umanistico e ha maturato la convinzione che l’uomo possa con le proprie opere ottenere l’immortalità, la fama su questa Terra e l’eternità poi.
L’ottimismo sulla natura umana che caratterizza almeno la prima parte del Quattrocento si può esprimere con l’affermazione classica che è fatta risalire ad Appio Claudio Cieco: «Faber est suae quisque fortunae» ovvero «Ciascuno è artefice del proprio destino». Nella Oratio de hominis dignitate Pico della Mirandola si immagina che Dio abbia detto all’uomo, dopo averlo creato: «Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine». Non passeranno molti decenni che altri intellettuali (Machiavelli, Guicciardini, Ariosto), tra il finire del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, sottolineeranno sempre più il limite umano e il peso che la «fortuna» ha sull’agire dell’uomo.
Nel Rinascimento l’uomo ideale del Medioevo, il cavaliere e il santo, è sostituito dalla figura dell’homo divus, colui che si afferma in un campo, da quello artistico a quello pericoloso del mestiere delle armi: il condottiero di ventura Gattamelata (1370-1443) e il geniale Leonardo da Vinci (1452-1519), che fu pittore, ingegnere, architetto, matematico, inventore, sono due differenti esempi di «grandi» del tempo. L’uomo si sente ancora creatura di Dio, ma si percepisce in un certo senso affrancato, libero, artefice di sé e del suo destino, per lo meno nella prima parte di questa rinascita. Certo, se la cultura popolare (ovvero quella della maggior parte della popolazione) conserva ancora tutta intatta la forte religiosità che ha connotato il Medioevo, la cultura intellettuale diventa sempre più laica e profana.
Si sta verificando quella scissione tra cultura del popolo e cultura degli intellettuali, che viene descritta da Pasolini negli Scritti corsari (1975), scissione che diventerà, poi, espressione di tutta la modernità. Il grande poeta Francesco Petrarca (1304-1374) avvia la ripresa degli studia humanitatis già a metà del XIV secolo, quando i suoi frequenti viaggi per l’Europa lo portano a scoprire nuovi codices e a risalire alle forme testuali più vicine agli originali attraverso la filologia. La scoperta di testi dell’antichità latina, prima di allora sconosciuti, si accompagna alla presenza di maestri di greco in Italia che permette lo studio di una lingua per molti secoli sconosciuta in Occidente. La fine dell’Impero romano d’Oriente nel 1453 fa, poi, confluire nella Penisola tanti letterati greci e intere biblioteche che, altrimenti, sarebbero probabilmente andate distrutte dalla conquista turca.
Sono queste le basi su cui si sviluppa nel Quattrocento una nuova humanitas (ovvero educazione a partire dagli studia humanitatis) che tenta di leggere i testi antichi nella prospettiva originale e autentica con cui sono stati scritti. Del resto, è proprio in quest’epoca che nasce l’espressione di media aetas per designare quel periodo, ormai definitivamente concluso, collocato tra la crisi della civiltà antica romana e la nuova epoca di ritorno alla classicità (che segnerebbe la fine della «barbarie medioevale»).
Gli antichi sono sentiti, oltre che come modelli umani, anche come modelli artistici. Per questo, un artista umanista o rinascimentale per realizzare un’opera d’arte imita la natura (depurandola delle imperfezioni che pur si trovano nella realtà) o le grandi opere classiche del passato che già hanno raggiunto la perfezione. L’opera d’arte in quanto tale è, infatti, perfetta, cioè compiuta in ogni sua parte al massimo grado, non perfettibile, ovvero tendente alla perfezione. Essa incarna l’armonia, la proporzione, l’equilibrio. Per realizzarla l’artista deve seguire le regole e le norme di cui pullulano i trattati di architettura, di pittura, di letteratura. Pensiamo alla fama che conseguono i testi di Andrea Palladio nel campo architettonico o al rinnovato interesse per la Poetica di Aristotele nel Cinquecento, seguita per scrivere tragedie e poemi epici.
La bellezza, così, incarnata nelle opere classiche è oggettiva e universale. Il Cinquecento classico tradurrà questo sforzo di emulazione degli antichi nel conseguimento di risultati che sono all’altezza dei maestri. L’homo divus rinascimentale raggiunge la gloria e diviene, così, imperituro nella memoria. Grandi corti e colti mecenati commissionano ad artisti lavori imponenti a Mantova, a Ferrara, a Firenze, a Modena, a Venezia, a Milano, a Napoli. Pienza rappresenta la città ideale rinascimentale. I lavori urbanistici condotti sotto la guida di Bernardo Rossellino nella seconda metà del XV secolo trasformano Corsignano, paese natale di Enea Silvio Piccolomini, il futuro Papa Pio II, nella città perfetta e geometrica, modello esemplare per l’urbanistica ideale. La città medioevale, impostata su un tracciato irregolare, viene trasformata con una pianificazione ordinata di percorsi rettilinei e di piazze squadrate. Molte chiese o edifici dell’epoca rinascimentale sono l’emblema di una misurazione del reale e di una razionalizzazione dello spazio. Armonia ed equilibrio, caratteri indispensabili della bellezza rinascimentali, sono, spesso, conseguiti attraverso l’adozione della classica sezione aurea. Leon Battista Alberti riprende gli studi di Vitruvio sul corpo umano e sulle sue proporzioni e le applica alle opere architettoniche «che devono compararsi a un organismo vivente».
Certamente, è qui impossibile delineare anche solo con pochi cenni l’esplosione artistica che caratterizza Quattrocento e Cinquecento. Gioverà ora sottolineare che se uno dei cuori pulsanti del XV secolo è, senz’altro, Firenze, nel XVI secolo, invece, Roma torna ad essere il centro del mondo artistico con Giulio II e Leone X e si trasforma in un vero e proprio grande cantiere. Tanti grandi artisti del Cinquecento lavorano per gran parte della loro vita per la Chiesa, pensiamo a Tiziano, a Raffaello, a Michelangelo. Papa Giovanni Paolo II scrive nella «Lettera agli artisti»: «Michelangelo […] nella Cappella Sistina ha come raccolto, dalla Creazione al Giudizio Universale, il dramma e il mistero del mondo, dando volto a Dio Padre, a Cristo giudice, all’uomo nel suo faticoso percorso dalle origini al traguardo della storia».
Accanto a questo umanesimo cristiano che ha prodotto tante testimonianze artistico–culturali si è diffuso, successivamente, in età moderna «una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco tra il mondo dell’arte e quello della fede» («Lettera agli artisti»). Ora, invece, se indagassimo più specificatamente l’immagine di donna ideale trasmessa dalla letteratura del Quattrocento e del Cinquecento, vedremmo quanto si fosse ormai lontani in quest’epoca dalla visione angelicata della Beatrice dantesca quale accompagnatrice dell’uomo verso Dio, vera figura pontefice tra Terra e Cielo.
L’Angelica ariostesca è l’emblema della frammentazione della realtà, ma, sarebbe più corretto dire, della frammentazione dell’io che percepisce il particolare slegato, cioè indipendente da tutto il resto. Angelica è allora costruita sulla parodia di Beatrice, già nel nome che richiama l’idea di donna angelo stilnovista. La Francesca del famoso canto V dell’Inferno rimpiazza, così, la Beatrice del Paradiso: profetica anticipazione dei tempi moderni.