Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santo Stefano a cura di Ermes Dovico
DOPO L'INVASIONE DELL'UCRAINA

Nato e democrazie, la difesa non passa solo dalla guerra

Con la crisi russo-ucraina, l'atlantismo da semplice alleanza militare a difesa delle democrazie liberali, si è trasformato in una ideologia manichea fondata su uno spartiacque morale assoluto tra il bene (l'Occidente) e il male (la Russia putiniana). Ma in questo modo si esclude la possibilità per singoli paesi membri - come l'Italia - di svolgere un ruolo di mediazione per risolvere pacificamente i conflitti, come già accaduto in passato.
- INTERVISTA / MARIJA PAVLOVIC: «MARIA CI VUOLE TESTIMONI DI PACE», di Alessandro Rimoldi

Esteri 22_10_2022

Da quando sulla questione russo-ucraina i rapporti tra Occidente e Russia sono andati precipitando, fino all'invasione e alla guerra ancora in corso, la parola “atlantismo” è stata usata nel dibattito politico dei paesi europei occidentali – ma con una particolare radicalità in Italia - sempre più spesso in un'accezione che ormai ha ben poco a che vedere con la storia effettiva del Patto atlantico, con il significato politico e culturale da esso assunto nel secondo dopoguerra e con le ragioni dell'adesione ad esso.

Piuttosto, quella parola è stata brandita minacciosamente da gran parte della classe politica e dei media – come capita ormai abitualmente su ogni questione che dovrebbe invece essere oggetto di dibattito aperto in una democrazia pluralista – per designare l'adesione, ritenuta a priori obbligatoria, ad una tesi “ortodossa” ben precisa: quella secondo cui nel giudizio sul conflitto tra Mosca e Kiev si può soltanto distinguere l'”aggressore” dall'”aggredito”, e conseguentemente si può soltanto appoggiare politicamente, economicamente e militarmente in ogni modo l'Ucraina, e l'unica opzione ammissibile per la conclusione del conflitto sarebbe una completa vittoria di quest'ultima, il ritiro dei russi da tutti i territori occupati (inclusi quelli già tali dal 2014) se non addirittura il rovesciamento del regime di Putin.

Insomma, secondo tale recente uso, l'”atlantismo” consisterebbe tout court in una linea politica, fondata su uno spartiacque morale assoluto tra il bene (i paesi dell'Occidente e quelli automaticamente ad essi “affidati”, come appunto l'Ucraina) e il male (la Russia putiniana, ma sempre più anche la Cina, che fino a pochi anni fa godeva di tutt'altra stima presso quelle classi politiche e quei media).

Un tale rudimentale e strumentale schiacciamento dell'appartenenza a un'organizzazione internazionale sulla linea adottata recentemente da essa cerca di oscurare una serie di distinzioni che invece sarebbero fondamentali per usare quell'etichetta con cognizione di causa.

La Nato, come si sa, nacque nel 1949 dalla convergenza tra gli Stati Uniti e i governi liberaldemocratici dell'Europa occidentale allo scopo di costruire uno schieramento in grado di fronteggiare la possibile espansione del comunismo sovietico nel continente, dopo l'installazione di dittature controllate da Mosca nelle nazioni della sua area di influenza.
Nel corso della guerra fredda l'alleanza mantenne la sua compattezza sul piano militare e dei princìpi fondanti, ma il succedersi di fasi diverse nel confronto tra i due blocchi – tra irrigidimenti e tentativi di “distensione” - e la varia vocazione geopolitica dei membri diedero vita a ruoli e posizioni non certo monolitici.

In particolare, tra le caratterizzazioni specifiche di alcuni paesi, oltre alla Ostpolitik intrapresa dalla Germania Ovest negli anni Settanta sotto il governo socialdemocratico di Willy Brandt, va sottolineata proprio la politica estera maturata dall'Italia a partire dagli anni Cinquanta, che, da Fanfani fino a Moro, Andreotti, Spadolini, Craxi, univa la fedeltà al principale alleato con una vocazione a giocare un ruolo di raccordo e dialogo con Mosca e con l'Europa dell'Est così come con i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. In questa particolarità italiana non tutto era scontato, nel tempo essa provocò anche diffidenze e tensioni con gli Stati Uniti, ma nel complesso nessuno poteva affermare che essa comportasse un'estraneità del nostro paese all'obiettivo principale della Nato, quello di contenere il comunismo e salvaguardare gli interessi delle democrazie.

Dopo la fine della guerra fredda, con il rapido processo di democratizzazione dell'Est europeo che parve coinvolgere anche l'ex “paese guida” del comunismo mondiale, si pose addirittura il problema del senso del mantenimento in vita dell'alleanza, una volta risolto il conflitto dal quale essa era sorta, e di una eventuale riformulazione dei suoi obiettivi strategici. Molti osservatori, anche alla luce della Guerra del Golfo e delle guerre civili jugoslave, ipotizzarono che il futuro della Nato sarebbe stato quello di fronteggiare le minacce che venivano da Sud e Sud-Est, dall'area mediterranea, balcanica e del Medio Oriente piuttosto che dall'Europa orientale. La svolta segnata dall'11 settembre 2001 e dall'esplosione del conflitto tra Occidente e integralismo islamico sembrò confermare in pieno questa diagnosi.

Soltanto nel corso degli anni Duemila il deterioramento dei rapporti tra l'Occidente e la Russia di Putin – dovuto in parte proprio anche al rapido e non concordato allargamento della Nato a quasi tutti i paesi esteuropei precedentemente inclusi nell'Urss o alleati della Russia – avrebbe progressivamente reindirizzato il “fronte” della Nato verso una nuova contrapposizione con l'erede principale del vecchio nemico sovietico. Ma ciò non avvenne certo all'improvviso. Si trattò invece di un processo lungo e contraddittorio. Nel 1997 la Russia era stata inserita nel Partenariato euro-atlantico (EAPC) e il G7 era stato ampliato in G8 con l'aggiunta di essa.
Nel 2002 nel vertice di Pratica di Mare, proprio con il contributo rilevante dell'allora Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi (che aveva tra l'altro dato alla politica estera del paese un'impronta più filo-occidentale dei governi di centrosinistra precedenti) fu creato il Consiglio Nato-Russia, quando a Mosca già “regnava” Vladimir Putin. Ancora nel 2008 l'amministrazione Obama aspirava a un “reset” nei rapporti declinanti con l'ex nemico divenuto partner, e nel 2010 siglava con esso il trattato Start 3. Insomma, fino a pochi anni fa l'atlantismo non coincideva minimamente con l'idea di uno scontro frontale con la Russia.

L'invasione dell'Ucraina – al di là dei fattori che hanno impedito soluzioni diverse e più pacifiche dei conflitti dalla quale essa deriva – ha certo drammaticamente cambiato le carte in tavola. Ma per quale motivo un paese membro della Nato, o persino il suo paese-guida. non potrebbe svolgere – in una situazione molto meno cristallizzata di quella della guerra fredda – un ruolo di ponte e di mediazione con Mosca? L'unico elemento di continuità tra la Nato del bipolarismo Usa-Urss e quella del periodo successivo è la difesa degli interessi delle democrazie liberali. E oggi, nello stato gravissimo di prostrazione economica e di pericolo in cui versa l'intero Vecchio Continente, il raggiungimento della pace attraverso il dialogo e il compromesso non rappresenterebbe certo il tradimento di quella esigenza primaria, ma un modo realistico di assicurarla.

In Italia l'atlantismo inteso come “mantra” identitario,  manicheismo assoluto anti-putiniano, esiste ora principalmente nella propaganda di schieramenti politici che nella storia sono stati, proprio loro, i meno convinti sostenitori del modello politico occidentale, e oggi cercano una facile “riverginazione”, delegittimando come loro costume costante i propri avversari. Senza contare, naturalmente, il legittimo sospetto che, se alla Casa Bianca invece dell'establishment progressista ci fosse stato in questi mesi Donald Trump, le loro posizini  sarebbero state ben diverse, se non specularmente opposte.