«Mistica deformata: le opere di Rupnik non aiutano a pregare»
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Il dibattito avviato a Lourdes sulle opere di Rupnik interroga tutti i fedeli. Intervista a don Nicola Bux: «La situazione dell’arte sacra ha contribuito alla secolarizzazione e alla perdita della fede. E Rupnik si è inserito in questo vuoto. I vescovi committenti dovrebbero chiedersi se i fedeli, davanti all’arte di Rupnik, siano portati alla preghiera o piuttosto alla danza attorno al vitello d’oro, che siamo noi stessi».
A Lourdes si discute su cosa fare con le opere di Rupnik. Oltre al problema morale, occorre porsi anche la domanda se i mosaici di Rupnik siano veramente arte liturgica. Ne abbiamo parlato con don Nicola Bux.
Don Nicola, incominciamo a capire quali sono i criteri di un’autentica arte liturgica.
San Giovanni Paolo II Papa, in occasione del XII centenario del Concilio di Nicea II, disse che i dettati di quel Concilio non erano ancora stati del tutto recepiti dall’Occidente. Una frase forte. Il Concilio del 787 dettava dei criteri per la venerazione delle immagini e la loro produzione. Il criterio centrale è che la Tradizione apostolica doveva essere rispettata e accresciuta in maniera organica, in modo che il fatto decisivo del cristianesimo, l’Incarnazione del Verbo, rimanesse il prototipo. Le icone dovevano stare in rapporto al Prototipo.
Ed è stato osservato?
In Oriente sì, forse in modo che a noi può apparire un po’ fissista; in Occidente è stato sviluppato gradualmente. Si pensi a Cimabue, Giotto e l’Angelico, che non hanno sconvolto gli assetti della pittura bizantina, ma li hanno sviluppati, sempre con l’attenzione a salvaguardare il Prototipo, Colui che con l’Incarnazione si è lasciato circoscrivere nel grembo della Vergine. Perché quando si propone l’immagine si tratta di capire se il fedele che la contempla può renderle culto, coltivare una relazione di venerazione, di supplica, di preghiera, che è il senso della produzione delle icone. Secondo me, questi canoni sono stati via via abbandonati e siamo arrivati, in Occidente, ad un vuoto che si doveva riempire.
Un vuoto anche di indicazioni da parte della Chiesa?
Credo che le ultime direttive siano state quelle del cardinal Gabriele Paleotti e di San Carlo Borromeo. Poi, sì, si sono fatti discorsi, ma nulla più. Nel cap. 7 di Sacrosanctum Concilium ci sono indicazioni sull’arte sacra, ma con dei passaggi che lasciavano aperte fessure a stili e modi non canonizzabili; di fatto è stato prodotto di tutto e di più, fino a introdurre nelle chiese l’astratto, che è il contrario dell’incarnato. Questo ha lasciato liberi gli artisti, e anche l’artista completamente digiuno della fede e della preghiera ha realizzato arte per la liturgia. La situazione dell’arte sacra ha contribuito alla secolarizzazione e alla perdita della fede.
Questo ha a che fare con la produzione artistica di Rupnik?
Rupnik ha seguito quest’onda e si è inserito in quel vuoto di cui parlavo. I chierici avevano perso il gusto, non avevano più criteri; hanno perciò recepito quest’arte vagamente orientaleggiante in maniera acritica. Non si sono però mai chiesti se i fedeli davanti all’arte di Rupnik fossero portati alla preghiera o piuttosto alla danza attorno al vitello d’oro, che siamo noi stessi. Ricordo che un critico d’arte, Achille Bonito Oliva, diceva che l’arte serve a dissacrare. L’arte non è più mimesis, che rende avvicinabile il Prototipo, ma una creazione dal nulla. Penso che questo possa aiutare a comprendere le opere di Rupnik.
Il Vescovo ausiliare di Varsavia, Michał Janocha, affermava (vedi qui) che l’arte di Rupnik è inquietante e respinge lo sguardo di chi prega.
Che il vescovo abbia fatto questa affermazione è molto interessante. Mi è capitato di ricevere una richiesta di un parere da parte di un parroco che aveva mosaicizzato l’abside della chiesa con un’opera di Rupnik. Io ho posto la questione: ti domandi se i fedeli, davanti a queste immagini, preghino, entrino in rapporto con chi è rappresentato? Il parroco rimase spiazzato e ciò mi ha confermato che è saltato uno dei canoni più importanti dell’arte cristiana: non c’è più la relazione con il Prototipo. Nella chiesa nuova di Renzo Piano, dove avevano messo la croce astratta di Arnaldo Pomodoro, l’hanno tolta e hanno messo un crocifisso seriale. A Lourdes, nella chiesa sotterranea di San Pio X, anni fa, c’era un crocifisso che era una sagoma di ferraglie. Feci notare la cosa a uno dei cappellani e lui mi rispose che tanto non lo guardava nessuno. Ma allora perché è stato messo?
Lei ha avuto come docente, P. Tomas Spidlik, considerato il mentore di Rupnik.
Un uomo mite, di fede e molto colto. Ricordo che lui era contrario alle icone orientali nelle chiese occidentali, perché faceva notare che le icone orientali si spiegano solo all’interno della liturgia orientale. Questa fa capire una cosa: che l’Oriente concepisce l’arte sacra in unità con la liturgia. Mentre da noi si costruisce una chiesa e poi, se ci sono soldi e tempo, vediamo di piazzare un’immagine della Madonna o dell’uno e dell’altro santo, a mo’ di francobolli. Per l’Oriente il programma iconografico è tutt’uno con la progettazione della Chiesa. Non si tratta di mettere un’immagine per riempire uno spazio vuoto, ma che la liturgia abbia un suo elemento visivo, così come ha quello uditivo e quello olfattivo, coerente con la liturgia stessa. Che Spidlik avesse questo convincimento, pone la domanda su come sia stato possibile che Rupnik lo abbia convinto di una trasposizione in occidente di questa arte che, secondo lui, dovrebbe coniugare quella orientale con quella latina. Orientale per modo di dire, perché le figure di Rupnik assumono movimenti ignoti all’arte orientale.
L’arte liturgica, che era già in crisi prima del Concilio, si è trovata dentro un fai-da-te liturgico. Ed è così diventata, a sua volta, un’arte fai-da-te.
Sono d’accordo. Se gli artisti hanno potuto manipolare l’arte sacra è perché i preti hanno potuto manipolare, secondo i loro gusti, la liturgia. Anche se poi se la sono presa con i fedeli, accusandoli di devozionismo. Ma nessuno si perita di dire che l’arte sacra è diventata un «imparaticcio di usi umani» (Is 29, 13). Come anche il culto. E Dio volta le spalle, perché si è caduti nell’idolatria.
Secondo alcuni, però, l’arte di Rupnik sarebbe stata la scialuppa di salvataggio nei confronti del decadimento, riproponendo un’arte propriamente sacra.
In questa fase di debacle, Rupnik può aver arginato una deriva totale. Ma che cosa ha prodotto? Può aver arginato dal punto di vista estetico, forse, ma dal punto di vista del culto, come si è detto, che cosa ha prodotto? Come mai a San Giovanni Rotondo tanti fedeli non vogliono entrare nella chiesa nuova? Il rapporto fede-arte è decisivo. Vale anche per la musica. Abbiamo fino in fondo capito qual è il proprium della liturgia, di modo che tutto sia ad essa confacente? Siamo passati da una percezione di Cristo incarnato e presente a una visione gnostica ed evanescente, astratta e quindi deista. Al punto che oggi il prete quando prega non è più capace di fissare lo sguardo su un’immagine: prega nel vuoto, complice anche l’orientamento verso il popolo. Quanto l’immagine realizzata da Rupnik aiuta questo fissare lo sguardo, a contemplare?
Si è aperto il dibattito su cosa fare delle opere di Rupnik. Di solito si obietta che anche altri artisti non avessero una vita morale integerrima. Ma qui il problema è diverso: Rupnik ha vissuto in modo moralmente riprovevole sostenuto da una falsa mistica e da una falsa teologia trinitaria. Come si può pensare che questo non entri nella produzione artistica?
Appunto. Si può anche ritenere che ogni uomo possa trasmettere un barlume di verità. Però qui la domanda riguarda l’impasto tra una concezione mistica deformata e una rappresentazione misterica che si propone. Nel momento in cui il fedele viene a sapere certe cose, non può non sorgere la domanda se quell’arte sia implicata con quella impostazione deformata. Oggi, in particolare, difficilmente si rimane ignari di quanto accaduto. Se dei vescovi e dei fedeli si sono posti questa domanda, già questo è un fatto e bisogna affrontarlo seriamente.