Metodo Draghi: c'è puzza di inciucio post voto
Quand’anche Draghi decidesse di fare altro, le condizioni generali potrebbero imporre ancora una volta alleanze innaturali come quella che regge l’attuale esecutivo. Segnali inequivocabili di questo clima “inciucista” si colgono leggendo alcuni quotidiani nazionali, che non escludono una sorta di “compromesso storico” tra i primi due partiti più votati, che al momento sarebbero Fratelli d’Italia e Pd.
Larghe intese anche dopo le prossime elezioni politiche? Nei palazzi del potere sembra dominare una certa assuefazione a questa prospettiva. Le ragioni sono essenzialmente due: le coalizioni sono sempre più litigiose e ogni partito sembra giocare una sua partita in totale autonomia; l’incertezza della situazione internazionale pare favorire l’emergenza socio-economica nazionale, orientando le politiche di questo governo e anche dei prossimi verso soluzioni ampiamente condivise.
Il “metodo Draghi” potrebbe dunque sopravvivere a Mario Draghi. Quand’anche l’attuale premier, alla fine della legislatura, decidesse di fare altro, le condizioni generali potrebbero imporre ancora una volta alleanze innaturali come quella che regge l’attuale esecutivo. Si troverebbe anche in quel caso un tecnico o una figura super partes che possa non dispiacere a nessuno ma che nessuno possa esibire come un suo trofeo.
Segnali inequivocabili di questo clima “inciucista” si colgono leggendo alcuni quotidiani nazionali, in particolare Il Corriere della Sera, che negli ultimi giorni ha ospitato in prima pagina editoriali a firma di Paolo Mieli e Angelo Panebianco più o meno cautamente favorevoli alla formazione di nuovi governi trasversali e con ampie maggioranze parlamentari. In particolare, alla luce degli ultimi sondaggi, i due opinionisti, interpretando un po' la linea della proprietà di via Solferino, non escludono affatto una sorta di “compromesso storico” tra i primi due partiti più votati, che al momento sarebbero Fratelli d’Italia (poco più del 22%, stando alle più recenti rilevazioni) e Pd (21% circa).
Quali finalità potrebbe avere uno scenario del genere? Ufficialmente quella di prolungare l’esperienza di governo condiviso e dunque di stabilizzare il quadro politico, favorendo convergenze tra opposti e l’assunzione di decisioni nell’interesse di tutti o della stragrande maggioranza degli italiani. Peraltro sono anche autorevoli esponenti del centrodestra come il governatore ligure Giovanni Toti, non a caso intervistato proprio sul Corriere, a caldeggiare una prospettiva del genere. La verità, però, potrebbe essere un’altra. I cosiddetti “poteri forti”, dagli industriali ai burocrati, hanno bisogno di un clima di conciliazione, vogliono dettare la linea senza contrapposizioni e divisioni e anestetizzare lo scontro politico, che vivono come una zavorra. Avere una sorta di patto istituzionale tra i due maggiori partiti significa poter silenziare tutti gli altri.
Ma c’è un retropensiero ancora più realistico. Tutti i sondaggi danno il centrodestra al 50% alle prossime elezioni politiche e il centrosinistra al di sotto del 40. Non ci sarebbe dunque partita, anche se le incognite sono tante. La prima è che l’unità del centrodestra è tutt’altro che scontata, viste le crescenti rivalità tra Lega e Fratelli d’Italia e il Vietnam dentro Forza Italia. La seconda è che forze centriste come Italia Viva, Azione e cespugli vari, ancora indecise sul da farsi, potrebbero riequilibrare i rapporti di forza e impedire al centrodestra di vincere nettamente e di avere una maggioranza ampia nella prossima legislatura.
La sinistra, però, ha una sola possibilità di andare al governo: quella della grande coalizione. Il cosiddetto campo largo auspicato da molti dem non si realizzerà, perché il Movimento Cinque Stelle ha almeno due anime, quella di Giuseppe Conte e quella di Luigi Di Maio, e nessuna delle due intende lasciarsi fagocitare da Enrico Letta e soci. L’alleanza sarebbe penalizzante per i grillini e dunque difficilmente si farà. Sistema elettorale permettendo, ognuno correrà per conto suo, poi si vedrà. Ma ormai sembra chiaro che i centri di potere extrapolitico vogliono marginalizzare sia i grillini che i leghisti. Quindi il Pd può sperare di governare nella prossima legislatura solo in una grande coalizione. Spaccare il centrodestra è dunque il suo vero obiettivo e lusingare la Meloni, che sulla guerra ha posizioni simili a quelle di Letta, potrebbe essere funzionale a quello scopo. Tornano in mente gli anni dei governi Berlusconi, quando la sinistra, dopo aver perso le elezioni, tentò prima con Angelino Alfano, poi con Gianfranco Fini, di seminare zizzania nel campo avverso per condizionare gli equilibri governativi. E ci riuscì, perché il centrodestra si logorò inesorabilmente.
Oggi non ci sarà bisogno di ricorrere ad artifici così cervellotici perché saranno l’austerità economica, il malessere sociale e l’instabilità internazionale a imporre ammucchiate e compromessi. Con buona pace del bipolarismo, della democrazia dell’alternanza e del primato della volontà popolare.