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LONDRA

May-exit, fine della premier che ha mancato la Brexit

Theresa May ha annunciato le sue dimissioni. Anche se in differita: andrà a casa il 7 giugno. Col senno di poi, queste dimissioni avrebbe dovuto rassegnarle il 16 gennaio scorso, dopo la bocciatura clamorosa del suo accordo con Bruxelles da parte del Parlamento. E la sua sconfitta inizia nel voto anticipato del 2017.

Esteri 25_05_2019
Theresa May annuncia le sue dimissioni

Theresa May ha annunciato le sue dimissioni e stavolta le rassegna veramente. Anche se in differita: andrà a casa il 7 giugno. Non sarà dunque il bis del 27 marzo, quando le aveva annunciate, ma condizionandole all’approvazione del suo piano di accordo per la Brexit (il piano non era passato, dunque era rimasta al governo). Stavolta le dimissioni diverranno effettive fra due settimane, a prescindere da come andrà il negoziato sulla Brexit.

Col senno di poi, queste dimissioni avrebbe dovuto rassegnarle il 16 gennaio scorso, dopo la bocciatura clamorosa del suo accordo con Bruxelles da parte del Parlamento (della sua stessa maggioranza conservatrice, fra l’altro). Tenendo duro al governo fino a giugno, ha invece ottenuto una triplice sconfitta: per se stessa ovviamente, ma anche per il Partito Conservatore che ora è ridotto al suo minimo storico e per il paese, che è ancora dentro un’Unione Europea dalla quale dovrebbe già esser fuori dal 29 marzo, scadenza del “divorzio” con Bruxelles. A spingere la May a restare al governo, nonostante le 36 dimissioni di ministri e le tre sonore bocciature parlamentari del suo piano di uscita dall’Ue, è stata forse una tragica illusione: quella di far cambiare idea al Partito Conservatore. Theresa May era veramente convinta che il patto con Bruxelles per un’uscita consensuale fosse l’unico possibile? A quanto pare sì, altrimenti non si sarebbe mai potuto spiegare tanto accanimento, sempre sullo stesso testo, più volte modificato ma sempre uguale nella sostanza, bocciato il 15 gennaio, il 12 marzo e il 29 marzo, sempre con maggioranze schiaccianti contrarie. Qualche deputato aveva effettivamente cambiato idea, ma non si è mai verificato quel riposizionamento della sua maggioranza su cui la premier contava.

Sarebbe riduttivo pensare che l’esperienza del governo May sia fallita solo con la bocciatura del piano di accordo sulla Brexit. In realtà la sconfitta inizia due anni fa, quando la nuova leader di un partito Conservatore allora trionfante, un anno dopo il referendum sull’Ue, ha deciso di indire elezioni anticipate. Aveva già la maggioranza parlamentare, sufficiente per condurre un negoziato con Bruxelles. Ma, probabilmente persuasa da previsioni e analisi sbagliate, la May era convinta di ottenere una maggioranza ancor più schiacciante. Si è invece realizzato lo scenario opposto: con gran sorpresa sua e degli osservatori internazionali, lungi dal rafforzare la sua maggioranza parlamentare, la May l’ha persa. Il Partito Laburista ha improvvisamente rimontato e per mantenere in piedi un governo, il Partito Conservatore, dal giugno 2017 in poi, ha dovuto accettare l’alleanza con il Partito Unionista nordirlandese, piccolo ma determinante. Approfittando della situazione i negoziatori dell’Ue hanno allora puntato a dividere l’Irlanda del Nord dal governo di Londra. E, non per caso, l’accordo bocciato dal Parlamento molteplici volte, aveva il suo tallone d’Achille proprio nella sistemazione della questione nordirlandese. Gli inglesi erano posti di fronte alla scelta se abbandonare i nordirlandesi all’Ue o abbandonare la pace. E gli Unionisti non avrebbero mai potuto accettare la prima delle due opzioni.

Tuttora resta un mistero perché la May abbia deciso di indire quelle elezioni anticipate del 2017 che le sono risultate fatali. Era veramente così ottimista sul loro esito? Credeva di ottenere una vittoria schiacciante? Disponeva di sondaggi così sbagliati e lontani dalla realtà? L’ipotesi dell’errore di valutazione è la più probabile. Ma è anche possibile che avesse un retro-pensiero: quello della resa dei conti interna al suo Partito Conservatore. La May era stata eletta da meno di un anno alla guida del Partito e del governo. I suoi rivali, fra cui Boris Johnson e gli altri campioni della Brexit, erano scettici nei suoi confronti: fino al 2016 era infatti una “remainer”, convinta supporter della permanenza del Regno Unito nell’Ue. Una sua vittoria le avrebbe permesso, prima di tutto, di consolidare la sua leadership sul partito, silenziare i rivali interni, trattare l’uscita dall’Ue alle sue condizioni. Anche in questo caso si è trattato di un calcolo sbagliato: sono stati proprio i rivali interni al Partito Conservatore (oltre agli Unionisti) a farle perdere la maggioranza parlamentare, ogni volta che si è trattato di votare per il piano di divorzio dall’Ue.

La leadership della May sul partito è però partita debole sin da subito. Non solo per la sua ambiguità sulla Brexit, ma anche per i suoi stessi valori, molto più simili a quelli dei laburisti che non a quelli dei conservatori. Dichiara di aver intrapreso la carriera politica soprattutto per senso del dovere nei confronti del paese e della sua gente. “Non pensi a te stesso – ha dichiarato – l’enfasi è sempre sugli altri”. “Se sei nato povero – diceva prima della sua elezione – morirai mediamente nove anni prima degli altri. Se sei nero, sarai trattato molto più duramente dalla giustizia criminale rispetto a un bianco. Se un ragazzo bianco in una famiglia meno abbiente, avrai meno possibilità degli altri di arrivare all’università. Se frequenti una scuola statale, avrai meno probabilità di arrivare al vertice della professione per cui sei stato educato. Se sei una donna, guadagnerai sempre meno di un uomo. Se soffri di disagi mentali, molto spesso non avrai una mano ad aiutarti”. “Il governo che ho formato sarà guidato non dagli interessi di pochi privilegiati, ma dai vostri. Noi faremo il possibile per garantirvi un maggiore controllo sulle vostre vite. Quando approveremo nuove leggi, non ascolteremo i potenti, ma voi. Quando si parlerà di tasse, non daremo la priorità agli interessi dei più ricchi, ma ai vostri. Quando si parlerà di opportunità, non consolideremo i vantaggi dei pochi fortunati, ma faremo quanto è possibile per aiutare tutti voi, indipendentemente dalla loro origine, ad arrivare lontano tanto quanto il vostro talento ve lo permetterà”.

E’ stata una Thatcher alla rovescia: molta giustizia sociale e poca enfasi sull’iniziativa individuale. Sono poche le analogie possibili fra lei e la Thatcher unica premier donna prima di lei. La “lady di ferro” ha ottenuto il primato del conservatorismo sulla politica britannica, innescato una rivoluzione sociale ed economica, ridato vigore al Regno Unito nella politica mondiale. La May, al contrario, ha ridotto i Conservatori al loro minimo storico, si è fatta superare dal vetero-laburismo di Corbyn e le conseguenze della sua politica sul Regno Unito sono ancora tutte da verificare (ma le previsioni sono tutt'altro che rosee). Si è tuttavia presentata, come la Thatcher, con un abito rosso per annunciare le sue dimissioni. E come la Thatcher ha finito il discorso in lacrime.