Disastro per Theresa May, sulla Brexit è tutto da rifare
Una batosta così, per un governo britannico in carica, non si era mai vista. Ieri pomeriggio, il governo conservatore di Theresa May, proponendo il suo piano per gestire un’uscita morbida dall’Unione Europea ha incassato il voto contrario di 432 parlamentari contro appena 202 favorevoli. Ora è veramente tutto da rifare. Oggi la May deve passare il voto di fiducia. Se vince (e stavolta ha i numeri per restare a galla) sarà di nuovo lei a dover tornare a Bruxelles a rinegoziare tutto. E ha tempo solo fino al 29 marzo. Se perde, i britannici torneranno al voto. E sarà il nuovo governo, probabilmente laburista, a decidere le sorti del rapporto fra Ue e Regno Unito. Nel frattempo si resta col fiato sospeso: si è aperto un nuovo capitolo, completamente imprevedibile, nella saga della Brexit iniziata nel 2016.
Una batosta così, per un governo britannico in carica, non si era mai vista. Ieri pomeriggio, il governo conservatore di Theresa May, proponendo il suo piano per gestire un’uscita morbida dall’Unione Europea ha incassato il voto contrario di 432 parlamentari contro appena 202 favorevoli. Ora è veramente tutto da rifare.
La premier Theresa May, dopo aver rimandato il voto, ha avuto il coraggio di affrontare il Parlamento, pur sapendo di essere in minoranza. Per cinque giorni ha presentato il suo piano per la Brexit come l’unico possibile e il migliore realizzabile. Non solo non ha convinto il suo stesso partito, ma neppure l’ala del suo partito che, nel referendum del 2016, aveva votato per il Remain, cioè per la permanenza nell’Ue. 118 parlamentari conservatori hanno bocciato il piano May. Sui banchi dell’opposizione, invece, solo 3 laburisti, Ian Austin, Kevin Barron e John Mann, hanno votato assieme alla May a favore del piano. Mentre tutto il resto del Partito Laburista e l’intero Partito Liberaldemocratico, il Partito Unionista (Ulster), i Verdi e gli indipendentisti scozzesi e gallesi hanno votato contro. Chiaramente ognuno ha votato per ragioni differenti. Gli scozzesi sono, per esempio, favorevoli all’Ue molto più della media dei concittadini britannici, tanto da volere l’indipendenza proprio per poter restare nell’Ue. I laburisti, sotto la solida guida di Jeremy Corbyn (estrema sinistra), vogliono negoziare una Brexit che tenga il Regno Unito nell’unione doganale europea. I liberaldemocratici, europeisti anche loro, vogliono un secondo referendum. Il Partito Unionista è invece sul fronte diametralmente opposto, volendo rompere drasticamente con l’Ue per tenere unito il Regno.
E’ proprio la questione nordirlandese che ha determinato la rottura. Nel piano della May, infatti, si prevedeva la conservazione di una frontiera aperta fra l’Irlanda del Nord (parte del Regno Unito) e la Repubblica d’Irlanda (membro dell’Ue). Ma proprio per questo, il Regno Unito avrebbe dovuto accettare l’istituzione, di fatto, di una frontiera interna, nel mare d’Irlanda, con controlli sugli scambi fra Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Il secondo prezzo da pagare era la permanenza del Regno Unito nell’unione doganale europea, almeno finché non si fosse trovata una soluzione più accettabile per tutti sull’Irlanda del Nord. Questa soluzione raffazzonata ha provocato l’opposizione sia degli Unionisti che dei Conservatori. Come scriveva sulla sua pagina Facebook, prima del voto, l’ex ministro degli Esteri Boris Johnson (leader indiscusso del fronte pro Brexit): nell’accordo “resta una minaccia cronica e deliberata all’Unione con l’Irlanda del Nord. Finché non ci prepariamo ad accettare l’impensabile e non abbandoniamo l’Irlanda del Nord, rimaniamo chiusi nell’unione doganale con l’Ue in gran parte anche nel mercato unico. Questo accordo ci impedisce di stipulare grandi accordi di libero scambio, come ha giustamente sottolineato l’ambasciatore degli Usa. Ci impedirebbe di deviare dai regolamenti, dunque di controllare le nostre stesse leggi. E dato che non una virgola di questo accordo è cambiata nell’ultimo mese, vuol dire ancora che dobbiamo dare 39 miliardi di sterline per nulla e senza garanzie sul futuro delle nostre relazioni. Questo accordo è la peggiore delle alternative, perché ci fa lasciare in qualche modo l’Ue, ma finirà per farci comandare dall’Ue”.
Adesso che la May ha subito una sconfitta bruciante, l’opposizione parte alla carica. Per questa sera è infatti in agenda il voto di sfiducia proposto da Corbyn. Se dovesse finire in minoranza, il governo May dovrebbe dimettersi e si andrebbe al voto. E i Laburisti, in questa fase, sono convinti di vincere loro. Sarebbe Corbyn, in quel caso, a trattare i termini della Brexit con l’Ue a Bruxelles. E le sue condizioni sono già chiare: il Regno Unito rimarrebbe dentro l’unione doganale in modo permanente. Ma paradossalmente, proprio perché il piano May è stato bruciato, oggi il governo May potrà ottenere una maggioranza più solida. Infatti il Partito Unionista (determinante per sostenere la maggioranza), ora che non corre più il rischio di approvazione della Brexit in quei termini, è pronto a votare la fiducia al governo, affinché questo possa negoziare un accordo migliore con Bruxelles. E lo stesso pensano anche i Conservatori dissidenti, fra cui lo stesso Johnson, che ieri sosteneva che la May ha “un mandato solido per tornare a Bruxelles” per negoziare un accordo migliore. Dunque anch’egli voterà la fiducia. La vittoria nella sconfitta è un paradosso, ma uno di quelli che rischiano di costare cari a tutti. Era già incredibile che a guidare il governo della Brexit fosse la May, che nel 2016 aveva fatto campagna per il Remain (“Brexit is madness”, la Brexit è una follia, era un suo slogan), adesso è ancora più impensabile che a guidare il negoziato sia la premier il cui piano è stato così clamorosamente bocciato dal Parlamento. I deputati conservatori sperano che la May, dopo aver sbattuto la faccia contro la realtà, si renda conto che deve trattare un’uscita più drastica dall’Ue. Quel che più probabilmente otterranno sarà un governo zoppo con ancora meno potere negoziale con Bruxelles.
I segnali ci sono già tutti nelle prime dichiarazioni di parte Ue. Il presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, soprattutto, ha detto che il piano May era “l’unico” (sic!) in grado di “garantire un’uscita ordinata dall’Ue”. Più sibillino Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo: “Sollecito il Regno Unito a chiarire le sue intenzioni il prima possibile”. Difficilmente l’Ue sarà ora più disponibile a venire incontro al Regno Unito. La scadenza è molto vicina: entro il 29 marzo si deve decidere come uscire dall’Unione. Se nessun accordo verrà raggiunto, né si otterrà un rinvio della data di scadenza, dal 30 marzo prossimo gli unici legami che rimarranno fra Londra e gli altri 27 Stati membri saranno solo le regole del commercio internazionale fissate dal Wto. Non un nuovo “muro di Berlino” fra le due sponde della Manica, dunque. Ma comunque una situazione in cui tornano tariffe, controlli e passaporti per molte più tipologie di merci, servizi e persone. E in cui i diritti degli europei (anche italiani) che vivono e lavorano nel Regno Unito tornano ad essere in discussione.
Aggiornamento del 16 gennaio: il voto di fiducia è stato vinto dal governo May, di stretta misura. Un margine di appena 19 voti, fra cui anche i 10 voti del Partito Unionista. La May resta premier. Sarà sempre lei, dunque, ad oggi, a rinegoziare la Brexit con l'Unione Europea.